mercoledì 1 dicembre 2010

Così ebreo, così umano.

“La tristezza ci rende stupidi, ci sforziamo di fare del teatro”. Iniziano così le “Prove del Mercante di Venezia”. Le parole del regista vanno a snidare gli occhi nel buio della platea. La tristezza infinita dei vecchi se la porta addosso quell’uomo stanco che dall’alto del suo trespolo guarda la scena vuota. Di Shakespeare e del suo teatro gli è rimasta una t-shirt posticcia made in China, sotto la giacca la faccia del Bardo è ancora incredula. La penombra è puntellata di organi umani, pendono alle pareti. Cola sangue sul muro di fronte, non si è ancora rappreso. Difficile capire dove siamo, è una no land di desolazione quel teatro svilito. Ma c’è uno specchio ricavato sul fondale e dentro ci siamo noi.

Assistiamo al baratto. Il regista non ha più nulla da perdere e scende a patti. Paga la vita in cambio dell’arte. Più volte si chiede dove inizia l’una, dove finisce l’altra ma non troverà soluzione di continuità. Il sistema metrico decimale non può leggere l’Arte. Non la sa codificare. La libbra di carne è l’unità di misura della primitiva Legge del Sangue. Tanto chiede al regista il losco imprenditore che animava le navi da crociera. Poco importa la provenienza dei capitali, se sono giochi di finanza creativa, se è la tratta di organi, le armi, le donne o la droga. Il colore dei soldi mette tutti d’accordo, senza domande. “Nothing comes from nothing”. Scopriremo che il regista cova da dieci anni il suo “J’accuse” e quei soldi sono l’ultima occasione per farsi sentire; all’impresario invece manca solo il cuore dell’artista per completare la sua collezione di organi, i soldi sono il ricatto atteso.

Il teatro comprato è il primo ossimoro che Moni Ovadia e Roberto Andò mettono in scena. Shakespeare è la lingua senza geografia né tempo. Italiano, inglese, tedesco, spagnolo, ebraico, rom diventano una Babele linguistica impastata col sangue. Le Venezie di ieri, i Buchenwald del secolo breve, le Ville Certose di oggi: un atto unico e irrisolto. Shakespeare racconta “l’acrobazia dell'uomo di farsi mercante di ciò che non è in vendita”. Oltre quelle parole ogni luogo è stato profanato. Non esiste futuro, non esiste speranza. Solo tragedie indicibili, finché l'eterno gioco del prestito e del debito governeranno un mondo demistificato dall’ipertrofia del denaro. Al monologo più famoso del “Mercante di Venezia” il regista si aggrappa con le unghie. Diventa il topos linguistico: ripetuto, raddoppiato, esasperato. E’ il verso del teatro che muore. La Torah laica dell’Arte venduta al migliore offerente.

“Se ci pungete, non sanguiniamo?
e se ci fate il solletico, non ridiamo?
Se ci avvelenate, non moriamo? “

L’eco di Brecht è potente. Lo straniamento prende allo stomaco.

“Un ebreo, non ha occhi? Non ha mani, un ebreo, membra, corpo, sensi, sentimenti, passioni? Non si nutre dello steso cibo, non è ferito dalle stesse armi, soggetto alle stesse malattie, guarito dalle stesse medicine, scaldato e gelato dalla stessa estate e inverno di un cristiano?”.

Così prende la parola Shylock. E’ sempre stato sulla scena lui, fin dal primo momento. Sdraiato, su un letto di ospedale, accanto un’infermiera isterica teledipendente, un cardinale e un misterioso prelato. In quattrocento anni di attesa anziché smussare i tratti caratteristici Shylock ne aggiunge altri, più stereotipati ancora. Sempre in bilico sul crinale tra realtà e finzione, storia e incubo. Alle parole si mescolano note musicali: dai Queen al gospel, da “Money” alle suggestioni klezmer e balcaniche. Lo straniamento brechtiano si stempera nelle canzoni pop. Shakespeare si confonde nelle coreografie stile Broadway. La scrittura teatrale schiera tutte le sue Muse perché la sommatoria dei pregiudizi sia nulla. Emarginato e strozzino. Cenere dai camini di Auschwitz, bambino errante a Buchenwald, assassino sulla Striscia di Gaza. In uno dei momenti più alti il monologo si mescola a un discorso hitleriano e il telo bianco sul fondo si riempie di facce con la stella gialla al petto. Sempre più piccoli i volti da non distinguerli più: sono così tanti. Ieri ebrei, oggi zingari, domani? Il tempo sincronico, lo spazio circolare sembrano quasi voler ripristinare quell’ordine morale che ha reso l’uomo vittima di un “disancoramento cronico”. La parola e l’anima mutilate per sempre, diventate merci di scambio.
“Stranieri a se stessi”: non solo Shylock, non solo il regista. Stranieri a se stessi sono innanzi tutto gli attori “scalognati” assoldati per pochi spiccioli dall’impresario. Giovani precari saltano da un ruolo all’altro, scendono a patti tutti i giorni. Si svendono ogni volta pur di guardare da lontano un sogno. In questa moderna Compagnia della Contessa il talento svilito è consapevole. Tutta la tristezza del mondo è la tristezza del teatro in questo momento.
“Sono giovani”, dirà l’impresario con la giacca di lustrini, se hanno talento cosa importa, cui prodest? L’unica cosa che conta è che Porzia sia gentile con gli amici, che si lasci accarezzare. Carne da macello in un mattatoio: la giovane vale tanti ducati quante le libbre del suo corpo acerbo. E lei lo sa. Morirà un po’ tutti i giorni, senza neppure accorgersene. Nessun bene è eterno sul mercato: ogni cosa si deprezza. La legge del Denaro vince sulla legge mosaica dell’ebreo Shylock, vince sulla Legge cristiana di Venezia.

Inevitabilmente va in scena un testo politico. Il teatro può solo essere politico se vuole sopravvivere nel 2010. Diventa inattaccabile quando parla Shakespeare. Anche oggi per protestare si scende a patti, mercanteggiando la propria arte con libbre di carne. Ma non abbiamo più nulla da perdere.
Soprattutto se siamo giovani ed abbiamo talento.







Federica Onorato.

domenica 21 novembre 2010

I Limoni

Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall'azzurro:
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest'odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l'odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d'intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno piú languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.

Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rurnorose dove l'azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case,
la luce si fa avara - amara l'anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo dei cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d'oro della solarità.


Eugenio Montale.

sabato 20 novembre 2010

Sprazzi di sereno.

Voltate le spalle all’aula che si svuotava si avviò verso l’uscita. Le ultime frasi del professore si erano accorpate, un’ombra che a gattoni rimbombava lungo le scale e tamponava di ovatta il baccano degli studenti. Fantasie bizzarre che danzavano, lasciavano scie come code di aquiloni. Nessuna congettura riusciva a farsi idea compiuta che già si coagulava in frantumi inerti di dubbio. E allora Chiara aumentava il passo srotolando le gambe sulla lunga scalinata come a volersi scrollare di dosso un peso. Le si leggeva in viso un punto interrogativo e pensava che aveva il libricino rosso da pochi giorni appena eppure qualcosa di strano le stava succedendo. Saltando a balzi di decenni la linea del tempo, ad occhio e croce le sembrò verosimile immaginarsi il professore appena ventenne nel tumulto del ’68. Buffo, lo era sempre stato. Lo vedeva magrolino fluttuare nella fiumana umana che colorava le strade di striscioni e inondava l’aria di slogan al megafono. Lui c’era. Lo distingueva nitidamente nel corteo, il jeans a zampa, il codino.


A ferirla era stata quell’ironia nella voce perché s'intravedeva una risata sommessa dietro, un ghigno, un moto di stizza, come per dire: “Queste cose assurde datate!! Povera illusa!”. Nemmeno l’aveva camuffata, la cattiveria stantia che si nutre al buio in solitudine. Perché non ho avuto la prontezza di rispondere? Perché ho lasciato che quella frase mi piombasse addosso così, senza capire? Istintivamente la mano scivolò nella borsa e accarezzò il libro. Guance porose di cellulosa livida si offrirono grinzose al tatto. Pagine incollate l’una alle altre avevano aspirato tutto il tabacco di quella pipa caleidoscopica e improvvisamente erano invecchiate senza ragione. Il libro aveva dita di vecchi fumatori incalliti, pelle gonfia di vesciche. Una piega amara le increspò le labbra. La mano afferrò forte il volume scarno come ad impedirgli di scivolare via. Ora aveva in pugno una trama asciutta di fibra lunga, un’anima lattiginosa e stringeva. Fu una nuova geografia di rughe e di ossa incavate a frastagliare le estremità usurate quando l’accenno di un sorriso svanì fugace e Chiara si fece seria. I ragazzi uscivano di corsa incuranti della pioggia ma era troppo bella la città bagnata per non fermare l’immagine.


Il cielo spoglio e l’odore di bagnato la sorpresero accanto allo stipite del portone, immobile, un rampicante sinuoso. Assorta, un po’curva, con la testa appena inclinata. Gli umori della strada, lo smog delle auto in fila, il sapore della gramigna abbarbicata ai muri si confondevano con spruzzi dell’esistenza odorosa. L’aria sapeva di muschio. Tutt’intorno c’erano pozzanghere dai sorrisi aperti in cui frugare, finestre affacciate a specchiarsi. La strada conteneva a fatica gli ombrelli. Erano per lo più uomini incravattati dal passo deciso, ciascuno con il proprio ombrello, la propria valigetta, consulenti della società finanziaria che sgusciavano dagli uffici del palazzo di fronte.


L’annunciò il ticchettio delle scarpe alte.

Poi pantaloni neri di panno, camicetta a righe e golf sotto la giacca con il logo della griffe cucito sul petto. “L’uniforme”, pensò sorniona. Perle piccole e luminose ai lobi, ciondolo di oro bianco che a fatica restava composto sul collo. Camminava a piccoli balzi, quasi impercettibili. Ondulava appena il bacino mantenendo la schiena dritta. Un singolare equilibrio in quella figura trotterellante, una strana armonia. Il compasso delle gambe disegnava semicerchi appiattiti. Faticava a correrle dietro l’ombra umida di un ricordo. Fu lei che vide Chiara per prima e con voce allegra le andò incontro. I capelli lisci ordinati, l’aria curata di chi ha tutto sotto controllo, i numeri giusti. Chiara riconobbe in quella frenesia composta dei passi il suo orologio biologico. Un tempo avevano camminato insieme lungo la via della Sapienza, Aveva tenuto il passo, a volte anche superato, accelerando come un riflesso incondizionato. Di quei primi anni di università ricordava la velocità e ancora provava nostalgia per le cose viste e non guardate.



(estratto)

venerdì 19 novembre 2010

Le piante del lago.

Le piante del lago
ti hanno vista un mattino.
I sassi le capre il sudore
sono fuori dei giorni,
come l'acqua del lago.

Il dolore e il tumulto dei giorni
non scalfiscono il lago.
Passeranno i mattini,
passeranno le angosce,
altri sassi e sudore
ti morderanno il sangue
- non sarà così sempre.
Ritroverai qualcosa.
Ritornerà un mattino
che, di là dal tumulto,
sarai sola sul lago.


Cesare Pavese

martedì 2 novembre 2010

I geni sono i buoi più grossi.

"Il talento è questione di quantità. Non si dà prova di talento scrivendo una pagina ma scrivendone trecento. Non c’è romanzo che non possa essere concepito da una comune intelligenza, e non c’è periodo che per quanto bello non possa essere costruito anche da un principiante. Ma bisogna sollevare la penna, mettere a posto il foglio, e riempirlo pazientemente. I forti non esitano. Siedono al tavolo e sono pronti a sudare. Arriveranno alla fine. Consumeranno tutto l’inchiostro e tutta la carta. Questa è la differenza tra gli uomini di talento e i vigliacchi che non cominceranno mai. In letteratura contano solamente i buoi da lavoro. I geni sono i buoi più grossi, che sgobbano diciotto ore al giorno, infaticabilmente. La gloria è il risultato di uno sforzo costante”.




"Per non scrivere un romanzo"
di Jules Rénard.


ps. grazie Fabio ;)

lunedì 18 ottobre 2010

Vento di Ponente

Come era difficile chiudere gli occhi in quella cappa di vapore immobile, non un filo di vento e gli occhi muti a fissare il soffitto. I rumori della strada si facevano ombre sul muro, filtrate appena dalla persiana molle. Si intrecciavano il chiarore della luna e la confusione del mondo, come avessero fatto pace.

Stracci intrisi di salsedine erano gli anni trascorsi in quella stanza di penombra, ammucchiati in un angolo insieme ai vestiti del viaggio. La valigia era aperta a fare posto all’odore della Casa per i giorni di nostalgia. Solo un profumo mi confortava e veniva dall’isola. Non sapeva staccarsi dalla terra e perciò si portava dietro la felicità inquieta delle mie estati innamorate. Respiravo a pieni polmoni quella scia di libertà, solo una riga di mare rasserenata di argento segnava l’orizzonte della finestra, poi l’occhio si faceva da parte. I limoni ancora assolati inondavano la notte e maceravano lenti. Mi veniva incontro un vociare di vespe, un chiacchiericcio di comari nottambule. Il vento si era calmato, raffiche di sale e conchiglie abbracciavano i ricordi, le note d’infanzia dei gelsomini. Brezza frizzantina a increspare la pelle. Il silenzio era una parete bianca di luce livida che bagnava tutta la Casa e lavava le parole.



(estratto)

lunedì 10 maggio 2010

Horror Vacui

I polpastrelli sgranavano pensieri sul bagnasciuga. Le orme, se ti giravi indietro, una fila disordinata. Ricordo una brezza di salsedine, un pomeriggio d’agosto, un tramonto di porpora. In quei giorni abitavo un tempo trascorso, pensieri sciolti e fotografie sbiadite a farmi compagnia. Nemmeno una settimana e sarebbe arrivato settembre. “Agosto sta passando, anche questo mese è andato. Resisti Luca!”: pensavo. Avevo l’impressione che due stralci di cielo ed anima mi seguissero. Ovunque. L’alito delle pupille pesava. Sguardo immobile che bucava il cielo. Soltanto a guardarlo il dolore nelle sue ossa lo sentivi gridare. Schegge impazzite a torturargli l’anima.

In quel periodo tolsi tutte le foto appese alle pareti della mia stanza, ripiegai i poster e l’euforia, misi da parte anzitempo la volontà di potenza dei sedici anni e la mia notte stellata di Van Gogh. Avevo ricreato un contenitore asettico, bianco, anonimo come la sua stanza di ospedale. Dentro vi avevo rinchiuso un vulcano di rabbia. “Horror Pleni” mi chiamava mia madre con un punto di domanda in viso. Avevo paura di ogni attaccamento, temevo il distacco. Volevo arrivare all’essenza perché non capivo che senso avesse un tumore a vent’anni. Allora scarnificavo le pareti, disconoscevo i colori, mi disfacevo del superfluo. “Horror Pleni!”, mi sembra ancora di sentirla quella voce. La mia camera era una sala operatoria dove con chirurgica precisione vivisezionavo ogni emozione. L’unica cosa di cui avevo bisogno era la luce, come le piante.

Luca era molto dimagrito. Improvvise malinconie di grigio assorbivano le sue risate. Aveva un’aria stanca, rughe che non conoscevo e mani nodose spesso attorcigliate come un grido muto. Dall’ospedale si vedeva il verde del giardino ed il mondo si rifletteva sui vetri. In un mattino umido di rugiada finalmente Luca tornò a casa. Ci guardammo senza fretta e il tempo si dimenticò di noi. Io ora non so dire quanto durò il miagolio dei gatti giù in cortile, né quanto si protrassero le urla eccitate dei ragazzetti che giocavano a calcio nel campetto di fronte. Qualcuno aveva rotto la clessidra del tempo ed era fuggito via come un ladro. Più guardavo quel volto smagrito più un calendario a ritroso svolazzava impazzito: immagini di una vita “altra” da quel mattino di settembre, vertigini di una stagione passata. Il mio sguardo vagò poi nella stanza e si posò sulla sua chitarra. Corde allentate sotto un manto di polvere. Distolsi lo sguardo. “Come stai?” gli chiesi. Scoprii che Luca era diventato saggio, lui che non lo era mai stato: “Sto!.. nel senso che ci sono, sono ancora qui, e questo già mi fa star bene- si sforzò di sorridere- Voglio cambiare la mia stanza”, continuò, ” mi dai una mano?”. Sentii tutto il peso dell’aria in quel momento. Luca dirigeva i lavori dalla poltrona pieghevole dove l’adagiavano ed io eseguivo. L’ordine con cui volle disporre i suoi quadri, i suoi poster, le sue foto rispondeva perfettamente alla fisica aristotelica e leibniziana secondo cui in natura non esistono spazi vuoti. Aveva sete Luca. Di ricordi, colori, odori, canzoni, film, libri, scatole, scarpe, chitarre, tazzine di caffè, cd, penne, candele, incensi, plettri, calendari, autografi, cartoline.

Ho capito negli anni a venire che quelle provviste ataviche di oggetti erano primordiale fame di vita. Luca non aveva più il privilegio delle infinite possibilità che il vuoto offre, dunque accumulava più cose che poteva, non buttava via nulla. “Horror vacui”:decisi di chiamarlo. La moltiplicazione delle cose in quella stanza era l’iperbole di stimoli sensoriali che voleva ancora concedersi. Erano mari in cui non si era ancora bagnato, canzoni che non aveva ancora ascoltato, tramonti che temeva di dover lasciare presto. L’aria poteva diventare elastica, questo mi insegnò “Horror Vacui”.
Io cercavo di rendermi sempre più invisibile alla sua disperazione. L’ultima volta gli portai della sabbia in una bottiglietta vuota, se ne versò una noce sul palmo della mano ed iniziò a sgranarla .”Secondo te due granelli uguali ci saranno?” mi chiese. Desideravo portargli il mare, le gare di nuoto fino all’ultima boa, le notti stellate dei falò, le nostre risate. Improvvise, lunghe, sonore, soffocate, incontenibili, liberatorie: le nostre risate. Parentesi alchemiche nella nostra amicizia. Per me e Luca il domani sarebbe sempre stato un agosto stonato di spighe abbrustolite e di granite al limone. “Horror pleni” e “Horror vacui” si erano incontrati, forti e fragili canne pensanti.
La cosa più preziosa che aveva era la sua raccolta di cd : “Sai ora cosa facciamo?” mi disse, “vorrei attaccare al muro, proprio quello di fronte al letto, tutte le copertine dei miei cd così posso sempre vederli, c’è ancora spazio lì, non trovi?”. Lui le ritagliava ed io in bilico su una sedia disegnavo improbabili rette orizzontali di nastro adesivo con le discografie dei suoi miti. Ogni canzone aveva un tempo e un luogo e ci prendeva un’effervescente malinconia nell’indovinarli.
Mi accorsi che il suo tempo stava finendo quando non ci fu più spazio per nulla.

Venne la morte. Dopo la messa le lacrime scendevano con più rabbia in corpo. Fissavo un sacchetto di plastica trascinato dal vento. Pregai che la corrente non lo strattonasse troppo e che la terra gli fosse lieve. Un broncio involontario mi tormentava il labbro all’idea che proprio Horror Vacui che rinnegava il vuoto mi lasciava la sua assenza in eredità. Il freddo fumoso di ottobre diventava schiuma increspata dall’eco del mare in lontananza, inghiottiva tetti delle case. Il cielo terso. Riappesi la mia Notte Stellata sulla parete di una stanza nuova.





(estratto)


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venerdì 7 maggio 2010

Come si muore dentro.

Lord Cecil si congedò esauriti i convenevoli. Lei si lasciò cadere a peso morto sulla poltroncina rossa. Il bustino le stava così stretto da farle male, il cuore che le scoppiava nel petto. La testa era diventata pesante e la rovesciò indietro.
“Ah, Elisabetta, Elisabetta…”, mormorava a se stessa, “cos’hai fatto?”.
Non riusciva a crederci. Le voci dei mercati erano poca cosa in confronto alle Erinni dei suoi pensieri. I rimorsi la torturavano e lei vacillò. Si coprì il viso con le mani. Voleva solo smettere di pensare, che la giostra si fermasse. Forse tutto poteva andare in un altro modo. Forse.
Prese uno specchio. Alla luce di una candela un viso stanco la scrutava nella cornice. Due rughe profonde ai lati della bocca serrata e labbra così sottili da sembrare invisibili. Il naso severo. Gli occhi, un azzurro grigio, erano cielo in tempesta, piccole fessure lucenti venate di rosso. Le palpebre avevano iniziato a cedere: la fatica di tenere a bada occhi irrequieti o lo sforzo di chiudere le saracinesche del cuore davanti alla Ragion di stato. La donna nello specchio non era bella. Quarant’anni portati male. Lentiggini e couperose su un volto altrimenti cereo: si vide vecchia tutta d’un tratto. Una mano fra i capelli e il ricciolo rosso le si scompigliò sulla fronte.

Elisabetta bambina giocherellava con i boccoli sulle dita, capelli rosso fuoco e pelle bianco latte: un incanto il contrasto di colori! Sua madre un giorno se ne accorse e la riprese con disprezzo.“E’ un atteggiamento da femmine! Tu sei una regina, Elisabetta, siederai sul trono di Inghilterra, devi governare, cosa sono quelle mani fra i capelli? Vergognati”. Erano passati tanti anni da allora e lei aveva imparato a governare insieme ai maschi, a sopravvivere e a non piegarsi mai: i suoi capelli avevano sempre avuto un contegno regale.

Socchiuse gli occhi, “No, in un altro modo proprio non poteva andare” si disse.
“La condanna è ormai firmata: è giusto così!..La condanna…si, è giusto così”.
“Dio Mio cosa ho fatto?”
“Quell’intrusa vile assassina ha osato chiamarmi bastarda!”.
Solo al pensiero il petto le si ingrossò dalla rabbia e il bustino pareva non reggere più tante emozioni. “Io sono la tua regina, bastarda figlia di Bolena!”: echeggiava quella voce piena di orgoglio ed odio. Maria Stuarda era sempre stata un problema per lei, ma stavolta era troppo: l’aveva offesa davanti ai suoi sudditi! “Devo vendicare tutti gli inglesi. Io sono la regina. Pensavi che ti avrei accolto, vile sorellastra? Che stupida! Eppure diciotto anni di reclusione a Forteringa non ti sono bastati…”. “A morte, a morte!”.
Rabbia, odio, sconforto, rancore affollavano l’anima. Rimorso.

Era caduta in una trappola, una questione fra femmine, peggio di qualsiasi guerra: si decideva il suo futuro. La storia l’avrebbe giudicata? Aveva il potere per condannare a morte la sorellastra, ma Elisabetta non ne aveva il diritto e lei lo sapeva. Per diciotto anni aveva tamponato l’odio: Maria Stuarda prigioniera nel Castello di Forteringa era diventata invisibile. Follia. Eccola tornare a sputare veleno. Era troppo.

La cera colava lenta lungo il portacandele, creava piccoli nodi come il tronco di un albero. Pensò al ceppo di legno del boia con la scure l’indomani. Maria Stuarda sarebbe stata decapitata.

L’Inghilterra avrebbe vinto, l’ordine protestante ristabilito. Elisabetta, la regina, incontrastata avrebbe avuto un problema in meno. Era vero? Meglio non saperlo, meglio addormentarsi.

Quel tarlo rovesciava lo stomaco, le mani frenetiche si torturavano nell’ansia. Non smetteva, l’ossessione divorava. Il rimorso. Pensò alla sorellastra, all’onta subita e alla giusta punizione ma le parve di andarci lei al patibolo. Una testa mozzata rotolò, distolse lo sguardo e riprese a fissare il buio oltre la finestra.

Ieri si erano viste dopo tanto tempo. Una battuta di caccia nella zona di Forteringa, Lord Leicester che le chiede di visitare la sorellastra: “Maria Stuarda è pentita, desidera supplicarle la grazia, la prego, le faccia visita”. Non aveva nessuna voglia di andarci in realtà, chissà come si era fatta convincere. Che idea pessima! Andare lì, aspettando che quell’infame si prostrasse ai suoi piedi ed invece essere accolta da un’orgogliosa sprezzante scozzese che in quel buco lurido, coperta di stracci, senza paura le ha urlato in faccia: “Sono io la tua regina!”. Mai aveva ricevuto affronto più grave. E Lord Leicester le aveva baciato le vesti pur di salvarle la vita. Lord Leicester, conte traditore … l’aveva anche creduto innamorato, la sua era adulazione: solo di Maria Stuarda gli interessava!
E allora: “A morte! A morte tutti!”.
La sorellastra era riuscita a far perdere la testa anche a lui. Era troppo. Quella notte non c’era verso di prender sonno, tanta era l’agitazione. Quel sangue: lei non poteva sporcarsi le mani in quel modo. La odiava con tutta se stessa.


Riprese ad osservarsi nello specchio: chi era la donna più potente del mondo? Con il dito ingioiellato iniziò a ripercorrere le strade del suo volto. Guance floride e batticuori giovanili: cose di femmine! Anna Bolena continuava a ripeterglielo: “Elisabetta: tu sei nata per governare!”. Non si sapeva proprio immaginare nel fiore degli anni, forse non lo era mai stata. Involontariamente la mano si posò sul grembo: “sterile” fu l’unica cosa che riuscì a pensare. Sentì tutto il peso della corona: insopportabile, quel bustino così stretto e quell’acconciatura regale che le tirava i capelli all’indietro in trecce e diademi. Dentro di lei non c’era stata vita. Cosa da femmine anche questa in fondo e lei doveva governare.

Vedeva i primi fuochi accendersi sulla piazza principale, il sole doveva ancora sorgere ma un vocio fitto ed operoso si alzava: montavano il patibolo per l’esecuzione. Nella penombra vide un luccichio camminare e poi salire sulla pedana: una lama.

Notizie della sorellastra erano trapelate segretamente. Aveva saputo cose strane: nell’ora d’aria in giardino la scozzese si stendeva sul prato, si rotolava sull’erba, anche se era bagnata. Cantava tutto il giorno canzoni d’amore. Imitava il verso degli uccelli. Le avevano anche detto che annusava la terra bagnata e parlava piano invece quando il sole era alto nel cielo, restava a volte immobile in una coperta di luce. Era stata vista alzar le gambe all’aria, una regina, a dare calci alle nuvole. Una sentinella l’aveva sorpresa a contare le gocce di rugiada lungo le sbarre della finestra.
“Sarà diventata pazza”.
La regina di Scozia passava le ore con Anna, la nutrice. L’eco delle risate fra le due donne: la cosa la stizziva. A Forteringa non si parlava d’altro che delle storie che Maria Stuarda raccontava ad alta voce. Le sentivano tutto il palazzo, domestici e sentinelle. Parlavano della Francia e dell’amore.


- “Maria Stuarda era un’assassina vile e orgogliosa”.
Forse è stata libera perfino in prigione.
- “Arrogante, ingrata, irrispettosa”.
Una vita breve ma non si era piegata.
Pazzia e saggezza insieme.
- “Sicuramente incoscienza folle”.

Fra poche ore sarebbe morta, con le sue capriole e le sue storie.
Un brivido le percorse la schiena, le mani sudavano. Faceva giorno. Si sentì la condannata, lei che rimaneva lì: una corona come catena ed un palazzo dorato per prigione. Non avrebbe rinunciato al trono per nulla al mondo. Lei non era come la sua sorellastra: votata al Dio clemente dei Cattolici, innamorata ogni volta di un amore nuovo, senza un piano, senza una strategia precisa. “Ecco come era stata cacciata dalla Scozia, ecco come era finita lì nella Torre, ecco come domani finirà al patibolo”.
Non l’avrebbe confessato mai neppure a se stessa .Solo per un giorno della sua vita regale avrebbe voluto esser lei. Rotolarsi nell’erba, arricciarsi una ciocca sul viso, provare il rossore di un amore, l’onnipotenza della maternità: che sapore aveva?
“I regni sono fango, argilla e niente in confronto all’amore”.

“ Che menzogna!”.
Era ripudiando l’amore che lei senza averne il diritto aveva condannato a morte una regina, l’amore è una cosa da femmine e lei doveva governare. Ma a cosa era valso?

Fra poche ore la testa di Maria Stuarda verrà alzata su un palo e mostrata alla piazza. E se qualche pazzo cattolico l’avrebbe santificata? Quella sorellastra passata alla storia avrebbe avuto l’immortalità. Libera dal tempo anche da morta!

Era troppo tardi per tornare indietro. Pensò al suo trono, al suo potere immenso, ai suoi regni sconfinati senza orizzonte. Si disse che aveva seguito tutti gli insegnamenti della madre, una figlia modello maschia. Anna Bolena prima di morire tutto non le aveva detto. Troppe volte aveva visto persone care trucidate e cadaveri torturati eppure nessuno le aveva mai spiegato come si muore dentro, lentamente.

Presto lo avrebbe saputo.



(estratto)

mercoledì 21 aprile 2010

Ho sognato la tempesta.

Miranda addormentata attende il nostro arrivo e la fine del suo incubo. E’ un letto freddo di ospedale quello sul quale si agita appena, ha sbarre di ferro da manicomio che abbattono i secoli, forse è il regista stesso a volere un’unica unità temporale con il Bardo drammaturgo.
Un urlo squarcia il buio, il nostro silenzio e la sua Tempesta, ecco il vagito della nascita: diventiamo spettatori.

La luce del teatro nel teatro è unica e totale. E’ un gioco ad incastro perfetto quello fra il vermiglio del velluto, sipario drappeggiato al centro della scena e le luci dell’allegoria che si fanno pareti di una grotta e riflettono la cifra stilistica della reinterpretazione della storia. Così vengono perimetrate le aree dell’unità spaziale mentre avanza la percezione delle ombre sensibili e del Mito della Caverna cui inevitabilmente rimanda la figura di Prospero demiurgo. L’illusione diventa inseparabile dalla realtà.

La scena è scarnificata, ridotta ai minimi termini, si va dritti all’essenza. Il prologo è solo un artifizio che impedisce l’interiorizzazione del dramma allontanando la dimensione reale e metafisica: catapultati nell’isola/mondo di Prospero assistiamo allo sbarco dei naufraghi e al racconto del Padre in questo pomeriggio singolare, misura tipicamente shakespeariana di intendere la vita, unità di tempo e spazio in cui non esiste gioventù né vecchiaia ma “una sorta di sogno nel quale si sogna di entrambe”. I colori primari lasciano a noi il compito di inscenare la Tempesta, la follia delle onde e la sfrontatezza dei vortici di vento.

Il regista napoletano lavora sulla contaminazione dei linguaggi, concettualizza la nudità scenica di Calibano; con una operazione cognitiva la sua ricerca del tormento psichico entra di diritto nell’unità d’azione. Calibano esce dal saggio di Montaigne e diventa“il matto del paese con le mani sul pisello”. Ariel, invece, alter ego femminile di Prospero, raggiunge la piena unità fra il sentimento di leggerezza e il sentimento di esistenza misteriosa, in tutta la sua dimensione surrealista e in tutta la sua enigmatica essenza. Di magrittiana memoria la sua presenza scenica: è un vero elemento pittorico, senza alcuna pretesa di essere reale. Non vola Ariel in questa piece: è sospeso nel limbo fra schiavitù e libertà, verticalizzato in un saliscendi che gli impedisce di fendere l’aria, è imbracato con le sovrastrutture concettuali della contraddizione fra il desiderio di sciogliersi da ogni legame e la paura cieca di perdere le sue catene, la sua identità. E il click metallico finale dei ganci ormai aperti dell’imbracatura ha il sapore amaro di un lucchetto irrisolto: la Tempesta ha travolto anche noi, siamo dentro un’allegoria vuota, il dramma del loro vissuto è il dramma dell’impossibilità del senso. Ci scopriamo frantumi di un senso possibile.

Schegge beckettiane illuminano gli abiti di un quotidiano consunto, lo stanco cappotto novecentesco di Prospero, la lasciva sottoveste di Miranda. E nel gioco dialettico fra chi guarda e chi è guardato, saltano all’occhio le barocche vesti dei nemici, secoli che si incontrano nel
Metateatro . Stefano e Trinculo dialogano idealmente nel tempo con “Los Borrachos “di Velázquez, la loro verità nuda di ubriaconi li riporta ad un Caravaggio napoletano.
Danzano immagini talismaniche di Iside e Osiride, la primitiva follia di Gonzalo parla il dialetto di Forcella: è un attimo di spaesamento quello che prende lo spettatore. Ci si perde in un dedalo di vicoli di una Napoli antica che emerge inaspettatamente dalle viscere dell’isola. La lingua materna offre appigli di verità, diviene non solo lo strumento di realismo pasoliniano per l’imitazione della vita quotidiana, ma soprattutto, un linguaggio onirico che introduce alla dimensione illusoria propria del teatro, della vita come recita.


Prospero è l’Amleto risolto, è il Mago Crotone pirandelliano de “I Giganti della Montagna”, è il testamento poetico di un addio al teatro, l’autobiografia filosofica e artistica che si fa carne. E’ l’Esperimento del regista. Nulla in lui è più lontano dalla fedele rappresentazione del testo: il mantello magico è un cappotto infeltrito, la sua bacchetta un bastone nodoso e quel suo essere sempre inclinato da un lato, come fosse un grande vecchio,è il colore dell' attualità che De Rosa vuole dare all’opera: il colore di Beckett. La bravura di Orsini riempie la scena quasi senza volerlo, la sua presenza ingombrante si fa però ombra per cedere il passo ai giovani attori emergenti.
Quest’opera alchemica, ricca di contenuti ermetici, prende il Testo classico e lo risvolta come un calzino: la Tempesta stessa sembra essere un spunto, un pretesto per portare sulla scena “una casa di specchi”in cui ciascuno di noi si perde.

«La tempesta somiglia a un labirinto. Ogni volta che intravedi una via d’uscita, questa uscita si rivela essere dalla parte opposta a quella che avevi immaginato. Come in un miraggio o in un sogno, quando provi ad afferrare qualcosa, l’oggetto su cui credi di aver messo le mani si dilegua. Finché capisci che ciò che conta non è l’uscita e che non c’è nulla da afferrare. Stare ad ascoltare le domande che il testo ti pone e restarci dentro, alle domande, al labirinto, è l’unica via».


"We are such stuff as dreams are made on; and our little life is rounded with a sleep.." (Prospero; The Tempest)



F.O.





Regia: Andrea De Rosa
Compagnia/Produzione: Mercadante Teatro Stabile di Napoli/Emilia RomagnaTeatro Fondazione/Teatro Eliseo
Cast: Umberto Orsini, Flavio Bonacci, Rino Cassano, Francesco Feletti, Carmine Paternoster, Rolando Ravello, Enzo Salomone, Federica Sandrini, Francesco Silvestri, Salvatore Striano
Spazio scenico: Alessandro Ciammarughi, Andrea De Rosa, Pasquale Mari
Scene e Costumi: Alessandro Ciammarughi
Luci: Pasquale Mari
Suono: Hubert Westkemper
Musica: Giorgio Mellone