mercoledì 21 aprile 2010

Ho sognato la tempesta.

Miranda addormentata attende il nostro arrivo e la fine del suo incubo. E’ un letto freddo di ospedale quello sul quale si agita appena, ha sbarre di ferro da manicomio che abbattono i secoli, forse è il regista stesso a volere un’unica unità temporale con il Bardo drammaturgo.
Un urlo squarcia il buio, il nostro silenzio e la sua Tempesta, ecco il vagito della nascita: diventiamo spettatori.

La luce del teatro nel teatro è unica e totale. E’ un gioco ad incastro perfetto quello fra il vermiglio del velluto, sipario drappeggiato al centro della scena e le luci dell’allegoria che si fanno pareti di una grotta e riflettono la cifra stilistica della reinterpretazione della storia. Così vengono perimetrate le aree dell’unità spaziale mentre avanza la percezione delle ombre sensibili e del Mito della Caverna cui inevitabilmente rimanda la figura di Prospero demiurgo. L’illusione diventa inseparabile dalla realtà.

La scena è scarnificata, ridotta ai minimi termini, si va dritti all’essenza. Il prologo è solo un artifizio che impedisce l’interiorizzazione del dramma allontanando la dimensione reale e metafisica: catapultati nell’isola/mondo di Prospero assistiamo allo sbarco dei naufraghi e al racconto del Padre in questo pomeriggio singolare, misura tipicamente shakespeariana di intendere la vita, unità di tempo e spazio in cui non esiste gioventù né vecchiaia ma “una sorta di sogno nel quale si sogna di entrambe”. I colori primari lasciano a noi il compito di inscenare la Tempesta, la follia delle onde e la sfrontatezza dei vortici di vento.

Il regista napoletano lavora sulla contaminazione dei linguaggi, concettualizza la nudità scenica di Calibano; con una operazione cognitiva la sua ricerca del tormento psichico entra di diritto nell’unità d’azione. Calibano esce dal saggio di Montaigne e diventa“il matto del paese con le mani sul pisello”. Ariel, invece, alter ego femminile di Prospero, raggiunge la piena unità fra il sentimento di leggerezza e il sentimento di esistenza misteriosa, in tutta la sua dimensione surrealista e in tutta la sua enigmatica essenza. Di magrittiana memoria la sua presenza scenica: è un vero elemento pittorico, senza alcuna pretesa di essere reale. Non vola Ariel in questa piece: è sospeso nel limbo fra schiavitù e libertà, verticalizzato in un saliscendi che gli impedisce di fendere l’aria, è imbracato con le sovrastrutture concettuali della contraddizione fra il desiderio di sciogliersi da ogni legame e la paura cieca di perdere le sue catene, la sua identità. E il click metallico finale dei ganci ormai aperti dell’imbracatura ha il sapore amaro di un lucchetto irrisolto: la Tempesta ha travolto anche noi, siamo dentro un’allegoria vuota, il dramma del loro vissuto è il dramma dell’impossibilità del senso. Ci scopriamo frantumi di un senso possibile.

Schegge beckettiane illuminano gli abiti di un quotidiano consunto, lo stanco cappotto novecentesco di Prospero, la lasciva sottoveste di Miranda. E nel gioco dialettico fra chi guarda e chi è guardato, saltano all’occhio le barocche vesti dei nemici, secoli che si incontrano nel
Metateatro . Stefano e Trinculo dialogano idealmente nel tempo con “Los Borrachos “di Velázquez, la loro verità nuda di ubriaconi li riporta ad un Caravaggio napoletano.
Danzano immagini talismaniche di Iside e Osiride, la primitiva follia di Gonzalo parla il dialetto di Forcella: è un attimo di spaesamento quello che prende lo spettatore. Ci si perde in un dedalo di vicoli di una Napoli antica che emerge inaspettatamente dalle viscere dell’isola. La lingua materna offre appigli di verità, diviene non solo lo strumento di realismo pasoliniano per l’imitazione della vita quotidiana, ma soprattutto, un linguaggio onirico che introduce alla dimensione illusoria propria del teatro, della vita come recita.


Prospero è l’Amleto risolto, è il Mago Crotone pirandelliano de “I Giganti della Montagna”, è il testamento poetico di un addio al teatro, l’autobiografia filosofica e artistica che si fa carne. E’ l’Esperimento del regista. Nulla in lui è più lontano dalla fedele rappresentazione del testo: il mantello magico è un cappotto infeltrito, la sua bacchetta un bastone nodoso e quel suo essere sempre inclinato da un lato, come fosse un grande vecchio,è il colore dell' attualità che De Rosa vuole dare all’opera: il colore di Beckett. La bravura di Orsini riempie la scena quasi senza volerlo, la sua presenza ingombrante si fa però ombra per cedere il passo ai giovani attori emergenti.
Quest’opera alchemica, ricca di contenuti ermetici, prende il Testo classico e lo risvolta come un calzino: la Tempesta stessa sembra essere un spunto, un pretesto per portare sulla scena “una casa di specchi”in cui ciascuno di noi si perde.

«La tempesta somiglia a un labirinto. Ogni volta che intravedi una via d’uscita, questa uscita si rivela essere dalla parte opposta a quella che avevi immaginato. Come in un miraggio o in un sogno, quando provi ad afferrare qualcosa, l’oggetto su cui credi di aver messo le mani si dilegua. Finché capisci che ciò che conta non è l’uscita e che non c’è nulla da afferrare. Stare ad ascoltare le domande che il testo ti pone e restarci dentro, alle domande, al labirinto, è l’unica via».


"We are such stuff as dreams are made on; and our little life is rounded with a sleep.." (Prospero; The Tempest)



F.O.





Regia: Andrea De Rosa
Compagnia/Produzione: Mercadante Teatro Stabile di Napoli/Emilia RomagnaTeatro Fondazione/Teatro Eliseo
Cast: Umberto Orsini, Flavio Bonacci, Rino Cassano, Francesco Feletti, Carmine Paternoster, Rolando Ravello, Enzo Salomone, Federica Sandrini, Francesco Silvestri, Salvatore Striano
Spazio scenico: Alessandro Ciammarughi, Andrea De Rosa, Pasquale Mari
Scene e Costumi: Alessandro Ciammarughi
Luci: Pasquale Mari
Suono: Hubert Westkemper
Musica: Giorgio Mellone