martedì 11 ottobre 2011

Felicità raggiunta, si cammina





Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s'incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t'ama.

Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
e' dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case.




Eugenio Montale
(da "Ossi di seppia", 1928)






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giovedì 6 ottobre 2011

La conosci via Carnelutti?


La conosci via Carnelutti?

La strada iniziava dove finiva la città. Pedalavo senza fretta su un rettilineo facile, lattine arrugginite e buste di plastica ai lati. Davanti a me scheletri di gru sospesi nel vuoto. Era la prima volta che finivo da quelle parti.

Il messaggio diceva: Domani puoi tenere il bimbo? Ci hanno anticipato lo spettacolo e dobbiamo finire le prove. E’ urgente, puoi venire da noi? Se avessi dovuto pensare a un quartiere per Giulia e Nino, quel posto l’avrei scartato subito.

Non una buca, né un sampietrino. Dal cartellone pubblicitario un plastico sorrideva al quartiere del 2015, palazzi uguali con piccoli cerchi di verde scuro, come corone di spine.“Pisanova: uno sguardo verso il futuro”. I nomi, pensavo. I nomi non sono mai scelti a caso, c’è sempre una logica. Il più delle volte è banale. E per questo spietata. Pisanova. Pisa Nuova. Smisi di pedalare, le ruote scivolavano sull’asfalto petrolio. Restavano gli ultimi cento metri, solita marcia inserita e la mente ormai vuota. Mi resi conto che Pisanova era la cosa più lontana dalla mia idea del nuovo. E per un attimo mi sembrò di avere tutto il tempo per arrivare in ritardo.

Luce che rimbalza sulle vetrate. A vederli di fianco, l’uno accanto all’altro, mi ricordavano una spiaggia dell’oceano, con il mare aperto e l’orizzonte troppo lontano. Casermoni bianchi in fila, balene arenate fra laterizi. Sul citofono soltanto il cognome di lei.


- Dorme.

- Dorme?

- Si, abbiamo provato a tenerlo sveglio. Ma è crollato.

- Ah.

- Vieni, puoi stare in cucina.


Giulia aspettava. Lasciò che il battito del metronomo mi venisse incontro, come lo scodinzolio di un cane. Su un tavolino al centro della sala il pendolo oscillava e senza rendermene conto regolai il fiatone sui 60 battiti al minuto. La stanza era gialla. Le librerie partivano dal pavimento e toccavano il soffitto, alcuni libri di traverso, incastrati. Odore di legno e tabacco.

Due ragazze stavano attorno a un tavolo, arrotolando le gambe mentre le dita sottili tamburellavano. Si girarono nello stesso momento. La pelle tesa sotto gli zigomi, non un filo di trucco. Una si passava continuamente la mano sul pantalone, come se lo stesse stirando. Salutai Nino che riprese la penna scivolata a terra come un pezzo mancante della propria anatomia e iniziò a leggere i suoi appunti sottovoce, muovendo a mo’di bacchetta d’orchestra quella Bic nera tutta mangiucchiata. Nell’aria frusciavano gli attacchi e le pause del pezzo. Giulia lo fissava seria trattenendo l’aria e il naso diventava sempre più simile a una freccia di ossa e carne rivolta verso il basso, finché un colpo di tosse non le grattò la gola. Gli occhi di Nino che si posano sulle giovani donne rannicchiate come bambine. Giulia disse: - Noi iniziamo, tu, se vuoi, fatti un caffè. Era il segnale. Dovevo andarmene e lasciarli provare.

Non c’erano porte interne. Qualcosa di fluido, quasi un’intuizione geometrica immaginarsi il resto della casa. L’atrio aperto lasciava intravedere uno spigolo ciliegia. Forse la cucina. Dall’intonaco rosso spuntava una palma, dipinta a mano, con foglie larghe che si allungavano fino a prendere tutta la parete. Mi feci spazio fra le tazze della colazione e gli avanzi della cena lasciando scorrere l’acqua prima di riempire nuovamente la caffettiera. Nino iniziò a leggere con una voce che non gli avevo mai sentito prima. Profonda, baritonale.

….


L’occhio si dice ch’è la prima porta per la qual l’intelletto intende e gusta:

la seconda è l’udir con voce scorta,

che fa la mente nostra esser robusta.


La veranda è aperta e non si vede nessuno camminare per strada. Tommaso dorme, proprio non ne vuole sapere di aprire gli occhi. Lo sorveglio a vista, ho paura di non sentire il pianto. Di là il metronomo è una mitraglia che trapassa ad uno ad uno i pensieri. Gli sono passata accanto un attimo fa, li ho quasi sfiorati e ho scoperto di esser diventata invisibile. Non c’entro con quella storia che raccontano, forse è questo il punto. Allora mi metto a spiarli dal cono d’ombra della camera da letto. Mi tolgo le scarpe e scivolo sul letto accanto al bambino. Qualcosa luccica fra le pieghe tenere del collo: è una collana con piccole pietre di giada. Penso ai denti, a quei punteruoli nella carne e mi sembra proprio una tortura attrezzarsi alla vita.


Nel Genesis la santa Bibbia narra

come Dio volse provar l’ubidienza

del patriarca Abram, sposo di Sara,

e per un agnol gli parlò in presenza.

Allor Abram gli sua orecchi sbarra,

inginocchiato con gran reverenza,

avendo il suo disio tutto disposto

di voler far quanto gli fosse imposto.


Un urlo. Un urlo mi fa sobbalzare come qualcuno che all’improvviso mi strattona. In un silenzio che si taglia a fette loro sono immobili, esattamente come li ho lasciati. Non c’è traccia dell’urlo. Ma io lo sento nell’aria, lo annuso. E’ la stanza che sta per esplodere.


Iddio disse: “Togli il tuo figliuolo unigenito Isac, il qual tu ami, di lui fammi sacrificio,

cammina per la selva aspra e deserta

fammi sol del tuo figliolo offerta”.


Nino nomina quella parola e Giulia diventa una maschera di dolore. Sacrificio. Due rughe partono spedite dalla fronte, vanno a graffiare le guance con un solco obliquo e profondo. Spietato come la storia che raccontano. La bocca spalancata resta muta per alleggerire il peso di quella parola. Non più un suono eppure io lo vedo l’urlo di Sara. Il gesto estremo di sputare in un fiato solo tutta l’angoscia di madre.


Già son tre giorni che andaron via

nel cor mi sento battere un martello;

e ‘l lor partirsi senza farmi motto

m’ha di dolor la mente e ‘l corpo rotto.

O patriarca Abram, signor mio caro,

o dolce Isaac mio, più non vi veggio:

il riso m’è tornato in pianto amaro,

e, come donna, vo cercando il peggio.


Tommaso si sveglia come per rispondere al richiamo della voce materna. Ha occhi liquidi ancora assonnati. Andiamo in su e in giù, dalla camera da letto al bagno, in quel corridoio stretto. Non posso fare a meno di osservarli.

Le ragazze ora si muovono. Posano dei libri sul tavolo, a turno. Le braccia eseguono movimenti esatti, procedendo a scatti. La prima appoggia un libro al centro. La seconda ne mette sopra un altro. Di nuovo la prima, poi ancora la seconda. Una, due, tre, quattro volte. L’una dopo l’altra. Costruiscono una pila di libri. Con lo stesso ritmo poi la disfano. Il senso sottile mi sfugge. Cammino allora più lentamente, cullando Tommaso con sobbalzi veloci. Il metronomo dà il tempo, continuano a impilare libri come gradini di una scala. Conto sei torri. Alla settima Giulia apre un libro sulla cima e una figura di carta si alza dalle pagine bianche. L’ombra di un pastore sulla parete, netta e scura nella lucentezza ambrata del mattino. Dura il tempo del corridoio. Nino legge con la sua Bic nera che volteggia nell’aria e io seguo incantata parole e disegni danzare a ritmo di quattro quarti.

Inizia a spazientirsi. Prendo un giochino, provo a muoverlo. Nulla. Non funziona, è furbo. Intanto buoi, alberi, angeli si aprono come origami e restano in equilibrio nei miei occhi. Provo a mimare le piccole scosse del passeggino. Tommaso mugola appena, impotente, pronto a strillare. Andiamo avanti così, io e il bambino e loro, con queste attività parallele a pochi metri gli uni dagli altri, finché non capisco.

….


Più volte ho ripensato a quelle torri di libri, al loro movimento come a un eterno ritorno. Al tempo di una storia in cui volevo entrare in punta di piedi. Ho sperato che Tommaso trattenesse il pianto fino alla fine. Ma l’ultima cosa è stata il Monte Moriah con l’ombra di Abramo che faceva strada a Isacco nella salita. Quando una delle ragazze ha disteso il collo sulla pila di libri, cippo sacrificale, il bambino ha iniziato a urlare. Mi sono infilata di corsa il marsupio e sono cosa giù per le scale inseguita da battiti metallici che diventavano sempre più flebili.

Alle tredici le due ragazze non c’erano più. Tutto era in ordine. Le ombre sulla parete erano svanite. Il metronomo continuava a ticchettarmi nella testa. Via Carnelutti con il sole di mezzogiorno appariva ancora più desolata e l’odore di asfalto bruciato si appiccicava alle ruote.

Quella via non apparteneva a chi l’aveva progettata. Pisanova era di chi abitava i casermoni squadrati, di chi colorava le pareti, toglieva le porte. L’idea che il teatro vivesse lì, fra catrame e acciaio, mi rendeva elettrica. Solo al ritorno mi accorsi che ai lati della strada si ostinavano dei ciuffi radi, fra lattine arrugginite e buste di plastica. A Pisa Nuova la gramigna resisteva.


giovedì 22 settembre 2011

Domenica mattina!


Campane a festa.

La ragazza se ne stava immobile alla finestra, con un gioco di leve modellava le ginocchia poggiando tutto il peso su due triangoli rosa. Le pareva di galleggiare, in trance, senza pensieri. Era sveglia solo da pochi minuti. Il sole filtrava dalla tenda di lino e superava le linee del corpo. Una strana rifrazione. Legno, vetro, paura. Onde luminose si scomponevano in colori. La sagoma inarcò la schiena, stiracchiò i muscoli ancora addormentati. Oltre il limite dei boschi strisce di nubi stavano l’una accanto all’altra, come fili di lana.

Domenica mattina. Ciocca di capelli sugli occhi. La mano che la ricompone sembra scacciare altre immagini, indugia sulla fronte. Accorrono i rumori della casa, l’acqua corrente, il tempo sull’orologio, l’eco dei passi di chi scende le scale. Qualcuno dice: Sei al sicuro!

La ragazza socchiuse gli occhi. Il chiarore del mattino era dappertutto.

Quasi tre anni fa. Un tempo infinito.

Accadde nel riverbero di un autunno. L’annuncio giusto lo trovò su un foglio a quadretti. Della bacheca universitaria restava un piano inclinato di sughero sotto un pergolato alluminio. Lì stavano poche righe ed un numero di telefono. Nulla di professionale. Ottimo, non ci sarà da pagare l’agenzia, fu la prima cosa che pensò. Strappò il foglietto e lo piegò con dita ad artiglio. Alle cinque del pomeriggio un signore brizzolato con un cappotto verde l’aspettava al civico numero 9 di Piazza Alimonda. Salirono lenti quattro piani di scale. I gradini alti e sbeccati sembravano incavati in un blocco unico di pietra serena. Nessuna parola, soltanto il fiatone del proprietario che diventava sempre più preoccupante. Le finestre del bilocale erano chiuse da mesi, forse anni, e quando la porta si aprì, un odore pungente di chiuso li avvolse. L’uomo si affrettò a spalancare le persiane. La luce aggredì i muri. Le ombre delle betulle si precipitarono sulle pareti. C’erano miliardi di piccolissimi alveoli che scoppiettavano di aria come botti d’artificio. Le sembrò che il diaframma della casa si dilatasse. Il proprietario parlava, lei andò verso la finestra. I lampioni brillavano e la piazza dall’alto era un grande occhio di bue dal cuore vermiglio.

Gli disse di si quel pomeriggio stesso. Nonostante fosse veramente piccolo l’appartamento. Nonostante quattro piani di scale a piedi. Oddio, troppo ripidi quei gradini! Nonostante lo scaldabagno che rabbrividiva in un interstizio del bagno mentre un rivolo di acqua sporca rigava le mattonelle. Non disse nulla quando il proprietario glielo mostrò ma la sua mente registrò un “oggetto non perfettamente funzionante”. Eppure c’era qualcosa di familiare nell’insieme. Non riusciva ad essere razionale. Qualsiasi cosa fosse: l’aveva travolta. Ne aveva viste tante di case quella settimana. Nessuna con quella luce. Il proprietario cercava di essere convincente, forse pensava alla fatica della salita, al fiatone che poteva spezzarsi la prossima volta. E poi voleva concludere l’affare. Sapeva di affittare a caro prezzo. – Ma, signorina, capirà, lei non deve sottovalutare la posizione, così centrale. Allo stesso tempo questo appartamento è estremamente silenzioso. Perché i rumori quassù arrivano con tutta calma.

Grazie del disturbo, ci penserò. Soltanto questo avrebbe dovuto dire. Cinque parole, al massimo due. Ma non lo fece. Pensarci addirittura. Rischiando che dalle sue dita scomparissero gli attimi di luce, le foglie degli alberi nella corrente leggera. La gioia primitiva della piazza dall’alto. Guardò fuori per cogliere sprazzi di cielo. E mentre le gocce di pioggia iniziavano a scurire i sampietrini un brivido di vita nuova le corse addosso. S’immaginò l’infinità dei suoi oggetti quotidiani, la loro ombra sui muri, il rumore dei piedi sul legno. Qui camminerò scalza sempre.

La casa prese velocemente la forma di un ricordo sospeso, come se già ci fosse una traccia di lei. Bastò per farla sbilanciare e firmò il contratto d’affitto di anni quattro più quattro nell’ipotesi in cui il locatore non comunichi al conduttore disdetta del contratto motivata. Lesse con occhi svelti parole che sapeva ormai a memoria muovendo impercettibilmente le labbra.

Il trasloco durò un giorno intero. La ragazza si portò dietro città grigie e morbose. Metropoli di successo le gravitavano attorno come satelliti pestilenziali. Inseguita da strepitii incessanti di vite frenetiche. Gradino dopo gradino, da una rampa all’altra, come sciami d’api. Furono necessari diversi mesi, giornate di silenzio e di luce per ridurre la baraonda dei pensieri a rumore di fondo. Per accorgersi che il grigio della pietra serena era di una sfumatura diversa rispetto al grigio che conosceva lei. Era quasi bello. Chissà cosa avrebbero pensato i suoi ex colleghi di quel bilocale nella piccola città vicino al fiume. Era arrivata al punto che non riusciva più a guardarli negli occhi. Sconfinata paura di riconoscersi fra orme di vite non ancora disperate.







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martedì 17 maggio 2011

Il mare, le rose e altri dolori. (estratto)

L’aria sapeva ancora di bruciato, nonostante avessi tenuto la finestra chiusa.

Era così tutte le sere, da quando al piano terra si trasferivano i villeggianti. Lasciavano Casoria i primi di maggio. Le donne, i bambini e la vecchia restavano in pianta stabile sotto casa mia fino a ottobre, gli uomini invece facevano i pendolari fra la Stazione Centrale e il paese.

Mio nonno pensò di essere un privilegiato quando vennero a vedere la casa e decisero che andava bene. - L’affitto è di duemila euro per la stagione – si premurò di informarli. Non voleva averla sparata troppo grossa - per l’inverno farebbero trecento euro al mese ma non viene nessuno e allora, voi capite - quasi a giustificarsi - noi dobbiamo viverci con i soldi dell’estate.

I villeggianti capirono benissimo e vollero tranquillizzarlo. Pagarono quel pomeriggio stesso duemila euro al mese per tutti e dodici i mesi dell’anno.

– In cambio noi vogliamo stare tranquilli - dissero.

Durante i mesi invernali qualcuno veniva a dormire, arrivava con il buio e andava via la mattina prima dell’alba. Non ero mai riuscita a vedere di chi si trattasse, ma sapevo che c’era qualcuno, perché sentivo tirare lo sciacquone la notte.

La casa di sotto era come la mia: due stanze da letto, bagno e cucina. Gomito a gomito si stringevano due famiglie, la nonna, i figli e i figli dei figli appena nati. L’ultimo era un bimbetto di pochi mesi che aveva respirato nella sua breve vita più ammoniaca che ossigeno. Mi sono sempre chiesta il perché di una casa così piccola. Li sentivo urtare fra loro quando camminavano, sbattere le ginocchia contro lo spigolo metallico delle brandine che sistemavano la notte per dormire.

Le donne stavano sempre a pulire, a disinfettare, l’acqua sporca del secchio la buttavano in cortile, dove giocavano i bambini, che si sporcavano di sabbia e puzzavano di ammoniaca e lasciavano impronte marroni sul pavimento della cucina. Così le madri pulivano di nuovo e svuotavano i secchi nell'aiuola del cortile. E ai lati, vicino alle mattonelle di cotto infilate nella terra, si depositava una patina biancastra di veleno.

Mi ricordo i fiori di mio nonno. Erano quasi sempre rose inerpicate su piccoli tronchetti che miracolosamente fiorivano e profumavano. Volevo bussare il campanello della casa di sotto, dire alle due donne che l’acqua sporca si butta nel water, che per colpa loro non crescevano più fiori. Mio nonno mi rispose che avevano pagato per esser lasciati tranquilli.

Prima del silenzio, prima dell’aria, mi rubarono le rose.




(breve estratto)



giovedì 12 maggio 2011

L'attrito fra l'animo e il mondo

“Ciò che chiamano passione in realtà non è energia spirituale ma attrito tra l’animo e il mondo esterno”.

La scena è scarna, spoglia, solo la voce ansimante di un racconto fuori campo la veste. La luce di penombra disegna un rettangolo che perimetra la stanza. Si lasciano intuire le persiane abbassate per fuggire l’ultimo spiraglio di sole, le finestre serrate per blindare la vita fuori.

Il cortocircuito ha inizio quando onde di pressione sonora ci investono. Nella sala attonita l’aria si increspa e i nostri pori assorbono rumore. Quel sibilo diventa lo spettro delle frequenze, le punte e le stasi della psiche nello sforzo di sintonizzare il battito dell’anima con quello del mondo esterno. In questo bipolo con resistenza nulla, l'intensità prende le forme dell'assordante rumore di fondo di pensieri in disordine. Nelle intermittenze quasi pare di sentire la stanza recitare : “la città non esiste/(…) la città è silente/ la notte in tumulo con undici stelle”.

A metà fra la crisi morale e la crisi economica in quel semioblio che l’abitudine chiama realtà i tre protagonisti fanno i conti con l’impazienza di vivere e giocano a fare le prove generali per esorcizzare l’insostenibile pesantezza del loro dolore. Si provano le vite, come i costumi di scena. Sono figli di una generazione che ha dissipato i suoi poeti , fanno i conti con il senso vuoto di un’esistenza passata a galleggiare. Il disgusto è tale da decidere di restare nelle quattro mura di manicomio, intenti a sopravviversi.

Nasce così la trance teatrale di Lorenzo Gleijeses, con una vita che si muove sul filo di luce. Igor ha una parrucca verde acido e mima a passo di danza piccole cerimonie quotidiane. I piedi strisciano, strofinano, si srotolano fino a sentire il pavimento. Liberi i pensieri, libera la bocca di contorcersi in smorfie, libere le mani di muoversi nell’aria ovattata. Un automatismo psichico amplifica e distorce le percezioni sensoriali. L’evocazione espressiva prende il posto della narrazione che accompagna il gesto, una semiosi cosciente del linguaggio non verbale.

Fuori il rettangolo luminoso, una donna legge. Ha una parrucca rosa shocking, un caschetto alla Valentina di Guido Crepax. Legge e lancia al vento fogli di carta bianca, come foglie divinatorie di una moderna Sibilla Cumana. Il suo oracolo vaticina Pasolini, Ruccello, Moscato, Concetta Barra, versi, invettive, lamenti. Lacerti di parole. La sua voce prende Igor per mano, muove i fili invisibili della marionetta che “gioca al teatro”, la guida nella ricerca espressiva di un corpo disarticolato e sconnesso. Un urlo squarcia il turbine metamorfico: è un lampo. Ma ci lascia al buio.

Il tuono arriva dopo qualche minuto. Ha la voce di Iggy Pop, di Ian Curtis dei Joy Division. La musica è totalizzante, non ci sono vie di fuga. La manopola del volume sull’amplificatore è portata al massimo: nella stanza chiusa diventa l’unico modo per ascoltare il silenzio. La follia in puro stile post-punk è uno schiaffo al gusto del pubblico, un sistematico lavoro di distruzione dei canoni estetici del teatro di maniera. L’assurdo di Beckett, Ionesco e Genet, la crudeltà di Artaud, il teatro panico di Arrabal, Majakovskij, Mishima, Carmelo Bene tutto si confonde in un delirio sconnesso, e al tempo stesso lucidissimo, di personaggi che vestono personaggi. Un flusso di coscienza in piena regola.

Le luci sono usate volutamente in modo antilinguistico, non vogliono infatti raccontare nulla, piuttosto mostrare i nervi a fior di pelle in questo cortocircuito della mente, la mappatura delle sinapsi, quel dedalo di scintillii e ombre che è la geografia del sistema nervoso.

Il monodramma vive di un dinamismo interno dionisiaco. Del pre-testo drammaturgico di Arrabal lo spettacolo prende il nome, i caratteri di cerimonia al margine del vivere quotidiano, la catarsi irrisolta. L’eredità di Arrabal, sopravvissuto alle tre reincarnazioni della modernità, (i suoi amici Breton, Tzara e Warhol), diventa la deriva del teatro contemporaneo. La piece è depurata da ogni formalismo, libera dall’ossessione della trama. Si rincorre una scrittura scenica in cui la parola deborda nel linguaggio specifico del teatro che non coincide con il linguaggio verbale ma si fonda sulla fisicità dei corpi. E’ un teatro integrale questo: gesto, movimento, suono, parola, performance sono sullo stesso piano. Gli attori si fanno atleti della vita per rincorrerla in un dedalo di gesti e riprodurla restando fedeli al sudore della fronte, ai muscoli caldi delle gambe che sfidano la legge di gravità. E’ un teatro-danza in alcuni passaggi, un rito iniziatico con suggestioni africane. Lo spazio performativo si riempie di spirali inesauste, di corse a perdifiato, di contorcimenti hip-hop. Il corpo parla per loro in un’operazione di degerarchizzazione delle tecniche e dei canoni artistici.

La drammaturgia è un collage onirico che perde la nozione del tempo e percorre ogni latitudine dello spazio. A tener insieme il tutto è l’espediente della follia, i dettami del teatro panico che attingono ai campi più disparati delle arti, il teatro fisico che non mostra, ma dimostra.

Molto bella la scena al rallentatore di un incontro ravvicinato. I due attori diventano fotogrammi di un cinematografo d’altri tempi, sono l’impossibilità di un abbraccio, l’incomunicabilità che ci rende monadi solitarie. Ognuno un microcosmo. Una solitudine.

Mentre i tre protagonisti “si provano le vite” nella stanza di penombra il mondo fuori reclama. E' il trillo del telefono a dare l'allarme. Ha l'accento marcato di un dialetto del sud, l’arroganza camorristica del denaro, l’ignoranza della sottocultura massificata. Intima di non fare rumore perché nel condominio le prove disturbano il sonno della ragione davanti al tubo catodico. La minaccia è reale e la richiesta precisa, sottile, funzionale allo status quo. Terribilmente attuale, verrebbe da aggiungere.

Agli intellettuali, ai chi cerca la propria parte in questa vita, si chiede di non dar fastidio, di fare silenzio appunto. Do not disturb.

E in “Cerimonia (per un negro assassinato)” i bravissimi Lorenzo Glejieses, Anna Redi e Manolo Muoio fanno così rumore che le giunture scricchiolano, le ossa si spezzano nell'impeto di sbattere i piedi sul pavimento dell’ultimo simulacro postmoderno.

Proprio quello di cui ha bisogno oggi il teatro.







Federica Onorato

Autore: Lorenzo Gleijeses
Regia: Lorenzo Gleijeses
Genere: Teatro dell’assurdo
Compagnia/Produzione: Teatro Stabile della Calabria
Cast: con Lorenzo Gleijeses, Anna Redi e Manolo Muoio