martedì 15 maggio 2012

Incontro.

Sovrastava l’edificio appena ristrutturato un pino alto. Riconobbe il profumo acuto della corteccia bagnata e le gocce di resina che schiumavano ambra. Il tronco era un lungo osso nodoso. Alzava le braccia al cielo. Giunture immobili e gangli scheletrici si specchiarono nelle pupille grigie della ragazza. Le venne spontaneo allora guardare all’insù, sentiva le nuvole agitarsi.
L’ombra degli aghi di pino aveva la stessa forma delle nuvole. Curioso trovare un pino proprio lì, si disse mentre apriva il cancello nero appena accostato. Perché quella era terra di betulle, di cipressi e di tigli. I pini lei li aveva sempre visti affacciati sul mediterraneo, incrostati di sale, fra le rocce frastagliate dallo scirocco, le radici avviluppate in una ragnatela stretta stretta alla terra. Come guardiani delle città del sud, il loro compito era segnare il confine, dove finiva il mare, dove iniziava il cielo. Quel pino invece si allungava placido e slanciato in una terra straniera.
Attraversò il giardino con le due aiuole ai lati. Non c’erano fiori, solo erba tagliata da poco che già impallidiva. E aghi di pino sparsi. Tutto sembrava molto pulito e ben tenuto.
Bussò al campanello e la porta si aprì appena lasciò il dito. Le venne incontro una signora sulla quarantina con un camice bianco fino al ginocchio profilato di giallo.
- Salve, è qui per una visita?
- Vorrei vedere la signora Liliana Maggi, ho chiamato prima.
- Ah, si, ricordo, l’ho presa io la telefonata, la ragazza senza cognome? Venga attenda da questa parte che avverto la signora.
Le indicò la strada con un gesto della mano e si allontanò verso le scale.
Il salone era molto grande. C’erano divani e tavoli bianchi, ovunque cuscini sedie dondolanti poltroncine. Le pareti di un giallo feroce stavano a guardare. Gli angoli erano smussati con piastrelle convesse. Luce liquida rimbalzava da una finestra all’altra. Strisce di lucentezza elettrica e poi zone di penombra, un senso di cose sfocate. C’era qualcosa di innaturale, forse l’odore di medicine, così chimico, ti prendeva alla gola. Sui tavoli giornali aperti e mazzi di carte già spaccati, partite iniziate e lasciate a metà. Il parquet color miele sotto i piedi non doveva esser legno.
- Quello della mia stanza è legno vero – pensò lei - scricchiola e assorbe i passi, questa è plastica, rimbalza – .
L’unico gruppo di poltroncine con il tavolino sgombro era il terzo sulla destra. Chiara si appoggiò appena al cuscino, mantenendosi in bilico. I muscoli contratti, i nervi tesi. Tamburellava le dita sui jeans. Tastò la borsa per assicurarsi di averlo portato, un tic ormai. Era la quarta volta che controllava.
La stanza sapeva di ospedale alcool garze sterili varechina deodoranti piscio profumi per ambienti. Malinconie. Pensò a come sarebbero stati i suoi ultimi giorni, in un acquario così, forse vischiosi della materia dei sogni, giorni abbandonati al torpore delle medicine. Oppure spietati, con istanti lucidissimi e a volte spazi vuoti. Si immaginò giorni che passavano con tanta lentezza da far male. Pensò al grande pino nel cortile, all’odore acre della resina che induriva. Prima quasi inconsistente, quella cosa nell’aria bagnata, poi in ogni spazio si insinuava il suo odore pungente, privo di forma. Gli aghi sparsi sul terreno là fuori. La parola “aghi” le fece venire in mente i cestini. Fece per alzarsi e guardare nei cestini dell’immondizia. Avrebbe trovato le buste piene di aghi usati. Forse di aghi ce n’era addirittura un magazzino intero. Ecco, pensò, questo più di tutto l’avrebbe fatta soffrire. Ne era sicura. Il fatto di dire “aghi” e di non pensare a quei disegni misteriosi che le foglie del pino là fuori formavano una volta cadute ma associare gli aghi alle siringhe invece, a quelle fatte e a quelle ancora da prescrivere. Così si immaginò i suoi ultimi giorni. Si sarebbe lasciata scivolare su quella poltroncina, avrebbe allentato la presa dei muscoli, le gambe a penzoloni. Dicono che da vecchi si diventa piccoli.
Chiara provava quasi disagio adesso, una delusione anticipata come una sorta di tristezza. La stanza le sembrava così finta. C’era tutto il senso di una decadenza inarrestabile. Restò seduta.
Fu sul punto di dire: Vi sembra una cosa intelligente tenerli così? Ma davvero credete che non se ne accorgano? Ma non disse niente perchè le sembrò una cosa troppo crudele.
Il rumore dei passi iniziò quando le porte dell’ascensore si aprirono. Stette ad ascoltare le rotelle pigolanti di una carrozzina, le suole di gomma dura e un terzo rumore che non riusciva bene a definire. Tentò di concentrarsi completamente sull’ascolto.
Sulla carrozzina sedeva una signora dalla pelle bianchissima piena di efelidi e macchie brune. Entrò nel salone. Era una vecchina piccola, aggrappata ai braccioli della sedia a rotelle, con dita tremanti, un filo di labbra, gli occhi nerissimi. Aveva una collana di perle con la chiusura al lato.
L’infermiera che spingeva la carrozzina sembrava pensare ad altro. Chiara si alzò di scatto.
Eccola, era lei.

(breve estratto)