mercoledì 15 agosto 2012

Memoriale del 15 giugno




Sei nella mia tasca e mi fai uno strano effetto. Ci entri appena. Camminare è un affondo pesante sul catrame che ribolle. Il caldo mi riempie la testa, a un tratto mi fermo. La folla mi attraversa, impreca, mi scansa. Qualcuno bestemmia. A venti metri da me la Stazione Centrale. Mi assale uno scrupolo assurdo. Sfilo il foglio, lo spiego veloce. Respiro. Le pieghe della cellulosa sul tuo nome, ho pensato, l’inchiostro già grinzoso e screpolato sulle lettere. Non lo avrei sopportato. Sento lo scricchiolio delle tue ossa che si ricompongono. Ditate sudate ovunque, liscio la carta a mani tese. Questo foglio è tutto quel che mi rimane. Questo foglio lo devo tenere bene mi dico. Stendo i bordi con i palmi. Non ti ho mai toccato così tanto in tutta la mia vita. 

Prima di ieri ti ho soltanto sfiorato. Ti sedevo accanto e tu avevi orecchie grandi e rosse e maneggiavi la sigaretta facendola roteare prima di accenderla per trovare il verso giusto dal quale succhiare ossigeno oppiaceo. Allungandoti il pacchetto semivuoto sentivo la pelle incancrenita dal tabacco, la scorza dura di polpastrelli scarniti dalla nicotina. Adesso un rettangolo bianco conserva le tue ginocchia nodose. Ti osservo mentre le attorcigli l’una sull’altra, inerpicandoti lungo le gambe di legno della sedia.  Il tavolo, la stanza, la casa sono un’estensione del tuo corpo legnoso. Negli ultimi anni ti sei trasformato in un nonno albero. Muscoli lunghi e accavallati, filamenti nervosi e tesi. Cavi d’acciaio e radici. Sul foglio ci sono cose che non voglio sapere. Qualcosa che mi riguarda e che mi strazia. E allora le mani accarezzano soltanto lo spazio bianco. Hai preso la forma tonda del mio fianco. Non ti ho mai abbracciato, uno di quegli abbracci in cui ti lasci andare intendo. L’intimità fra noi è stata una confidenza senza permesso. Arrivavo in silenzio, appoggiavo le mani sulle spalle stanche di un vecchio arrotolato su una sedia. “Chi è?”, ti dicevo, “indovina!”. Nonno, sono tornata, volevo dirti. “Stong fumann, nun ò vir?”, dicevi senza girarti. 

Ho fatto un rapido calcolo, una stima per difetto. Sono cinquecentodiciottomila e trecento o forse anche di più. Succhiate fino al midollo. Col mozzicone sputato solo quando si spegneva tra le dita. Ho contato pure l'ultima Malboro, quella prima del sonno. Una smorfia mi parte sulle labbra e me ne accorgo solo dopo: è andata proprio come volevi.

Hai perso la vista intorno ai trenta anni e altri cinquanta li hai passati al buio. Avrei voluto chiedertelo tante volte. C’erano quelle pause che prendevi fra una voluta di fumo e l’altra, e io ogni volta pronta a farle cadere quasi per caso le parole, come la cenere infuocata che ti finiva addosso e ti bucherellava i pantaloni. Nonno come è il buio? Come si sta? Mi hanno detto che un cieco compensa sviluppando gli altri sensi. Io ti trovavo inginocchiato sui mattoni dell’aiuola in giardino, con un secchio d’acqua e il terreno sciolto dentro e una ventina di rami di rose rinsecchite morte da un pezzo. Ti ostinavi a piantarli, a innaffiarli, misuravi la distanza come un agrimensore egizio che si fida solo delle sue mani. Rami che non sarebbero mai più stati rose. Mi accorgevo di te da lontano, appena imboccavo il viale, il tuo secchio di acqua santa, le mani che trafficavano fra il grembo e la terra bagnata e inginocchiato così ogni volta mi chiedevo se non stessi pregando. Perché era un atto di fede ostinarsi con la vita in quel modo. Oppure un sesto senso che avevi sviluppato e che mi sfuggiva. Fa paura il buio, nonno?, quanto vorrei avertelo chiesto. Il buio è nero e basta, mi rispondevo ingoiando parole che andavano in fumo. 

Il tuo nome sta nel secondo quarto di foglio, il rettangolo di destra intendo. Me ne sto ferma nel bel mezzo della folla furiosa, e ricontrollo. Una fissazione assurda. No, non ti toccano le scanalature della carta, l’usura del quotidiano ancora non ha fatto di te carta straccia. Sei diventato un A4 e mi fai uno strano effetto. Ma tu non sai nemmeno cosa è un A4, vero? Sorrido perché conosco quel tuo restare immobile per qualche secondo quando dico una parola che non conosci, come per annusarne la scia e un attimo dopo dire: Ch r’è? Come ti immagini un foglio di carta? Un semplicissimo foglio di carta? Ecco, proprio così, quelle misure standard. Un A4. Sei diventato un nome in grassetto che fuggo disperatamente. Ti sta accanto, in corsivo, la data di ieri. Fra te e ieri ha messo una virgola quella dell’anagrafe. Soltanto una virgola. E questa cosa mi fa schizzare il sangue alla testa. Pretendevo un punto, un paragrafo di separazione, un’interlinea di distanza. Siete ancora due cose diverse tu e quello che è successo ieri. All’impiegata stavo per dire qualcosa ma poi ci ho ripensato.

In realtà questa sensazione dura da prima che tu diventassi foglio. Mi sono svegliata nel cuore della notte ed era già qui ad aspettarmi. Devo farlo, pensavo. E’ solo una stupida roba burocratica. Non è nulla. Devo farlo. Alle nove e un minuto attendo che l’ufficio apra, stringo un numero scritto su un triangolo di carta strappato male. Anche se non avresti potuto vederla quella donna era esattamente ciò che intendevo quando ti dicevo: - A volte non ti perdi nulla se non vedi certe cose, ti risparmi solo qualche dispiacere. E tu in una nuvola di catrame fumante mi dicevi:  Ch vuò ricere? E lasciavi perdere.

L’ufficio perde calcinacci, rovinano sul battiscopa come polvere, il corpo di lei è un ammasso di faldoni impilati l’uno sull’altro, cementificati da muffe e umidità. Grassa, unta, con gli occhiali che le scivolano sul naso. Non ispira simpatia, ha un viso solido e qualcosa di incastrato nei denti. La lingua le si contorce sotto il palato facendo oscillare appena il mento. In mente mia ti dico: mi hai fatto finire fin qui. 

- Salve, mi serve un certificato di morte. Qui ci sono tutti i dati che le occorrono,- e le allungo un foglietto sul quale mi ero annotata tutto. 
- Si, - mi risponde lei, e non si muove. Non muove un muscolo. 
- Allora,- dico io, - può farlo per favore? -. La sua flemma  è una scheggia di osso nella mia carne.
- Si, - dice lei. 

La fronte lucida e quelle borse gonfie sotto gli occhi emergono dalla penombra dell’ufficio come un’enorme balena inabissata che sta risalendo in superficie. Come quel fottuto certificato di morte lontano anni luce che si avvicina alla mia mano. Il foglio sbuca dalla stampante e il timbro è un pugno in faccia. Sputo denti rotti e sangue e vado via. Il mio treno parte fra meno di un’ora.

Ripiego il foglio, sei di nuovo nella mia tasca. Sono arrivata, devo cercare il binario, poi siederò al mio posto e per sei ore spegnerò il cervello. La Stazione Centrale è un forno. Particelle di odori viaggiano a velocità supersonica, si aggrappano a pezzi di canottiera, ai nei sporgenti, a scampoli di pensieri. La pelle dolciastra dell’uomo che mi taglia la strada, il tanfo del barbone che ha dormito per terra e ha sentito l’asfalto sudare e rilasciare calore, lo zucchero a velo delle sfogliatelle calde che squaglia, l’orina dei bagni che sale come vapore acqueo, il disinfettante della passamaneria della sala d’attesa, la polvere che alzano i treni. Macchie umane ovunque. A queste temperature elevatissime la materia si scompone, la struttura dei corpi si espande. Tutto si fonde, e che io lo voglia o no, ormai sono dentro. Facce rigide, in coda alla biglietteria, con le braccia conserte davanti al monitor, trafelate per la corsa, scoprono insospettabili mollezze e cedimenti. Intorno a me solo persone stravolte dal caldo e dalla notizia: il treno è stato annullato. Non so dire se strilla di più l’acciaio morso dai freni sulle rotaie o la signora che ha perso la coincidenza per Torino. Eppure in un attimo è tutto estremamente chiaro. Ora ti sento pulsare, maledetto A4. So esattamente cosa devo fare e attendo in silenzio il mio turno alla biglietteria. 

- A che ora parte l’ultimo treno?  
- L’ultimo? 
- Si. 
- Guardi che per i guasti alla linea imputabili alle ferrovie, Trenitalia si impegna a garantirle un posto sul primo treno utile per la sua destinazione. Non c’è bisogno che attenda fino a stasera per partire.  
- Si, lo so. L’ultimo treno? 
- Vediamo… 19.19. 
- Prendo quello. C’è un deposito bagagli in stazione?  
- Si, di fronte al binario 4.
- Arrivederci.

E’ stato allora che mi è venuta quell’idea e immediatamente ho provato una morsa di rimpianto.  Avrei dovuto farlo prima, come tante altre cose. Ma oggi c’è troppa energia nell’aria perché io possa far finta di nulla. C’è questo calore che cade pesante su binari, strade, case, persone. Abbiamo circa quattro ore, nonno, e il caldo quasi nemmeno più lo sento. 

L’ultima volta che ti ho visto avevi voglia di parlare. La tua voce era arrocchita dal fumo e carica di allusioni. Hai spento la tv e hai lasciato che tutti i rumori del mondo attorno a noi si raccogliessero nel fumo lento della tua Malboro. Eri molto malato e lo sapevi. Io non riuscivo a staccare gli occhi da quel sacchetto a terra che pulsava di vita propria. Un liquido giallo senape, venato di rosso, lo gonfiava a più riprese. Il tubicino trasparente si animava sotto il carico dell’urina. Non vedevi ma sapevi tutto. Cerotti bianchi e lunghi ti incollavano l’addome da parte a parte tenendo più fermo possibile il catetere. Mi hai sentita avvicinare, ho visto le tue mani che impazzite hanno lasciato cadere sul tavolo il mozzicone acceso. Sei corso a sistemarti, a tirarti su il pigiama, a controllare che l’inguine fosse coperto. Si na femmena, hai detto.

- Tu comme staje?-, poi mi hai chiesto.
- Sto lavorando. Sono poche ore al giorno, non mi pesano, ho tempo libero. Posso scrivere.
- Allora staje bbuono?
- Vorrei fare tante altre cose. Ma è un buon compromesso adesso.
- Uno dind'a vita adda fà a cosa che 'o fa cchiù cuntento. Si uno nasce che sape fà coccose è bbuon nun pò campà facenna finta e niente. Comm' puoje campà accussì?
- E se gli altri non sono contenti?
- Chi 'o vò bene a fine s'accuntenta.
- Non è sempre così.
 - A vot' a gente nun sape chell che dice ma parl o stess. Tu a staji a sentì?
 - Si, a volte si.
- Dind' a vita s'anna piglià e decisioni. O accà o allà. 
- E tu che dici? 
- Tant fernesce semp dind' a stess manera.

E’ difficile immaginare l’irruenza della tua gioventù, il coraggio che ti risollevava ogni giorno, quell’intreccio di sciagurata disperazione e di momenti belli, di fugaci squarci di luce nella povertà del dopoguerra. Mi chiedo cosa avresti fatto tu al mio posto, se eri già così saggio e così pratico della vita. Sono i tuoi ricordi a colori quelli che mi srotoli sul tavolo. La tua età dell’oro. Conosco a memoria ogni parola, o almeno così credo. Alla fine c’è sempre qualcosa che non so di te.

- Quann si turnata? 
- Adesso. Sono appena arrivata. Ho ancora la valigia in macchina. Che si dice qui? 
- Tutt a' post. E’ arrivata a’stagione nova pure chest ann.
- Domani voglio andare in città.
- Miezz a 'mmuina?
- Mi manca a volte tutto quel casino.
- E ‘ngopp a Largo Tarsia ce vaje semp?
- Si, te l’ho detto. Lo zio di Gaetano abita lì. E ora che la casa è vuota ci dormiamo noi.
- E’ nu palazz e signuor o nu vascetiell’? 
- No, la casa sta in un bel palazzo. Più di trecento metri quadri che affacciano sul Largo Tarsia. Hanno fatto i lavori di restauro da poco. Il palazzo, per farti capire, è quel bestione grande, con ancora le stalle per i cavalli al piano terra, quello che abbraccia tutta la corte sul davanti. Forse lo conosci, è del settecento, e dietro c’è la Chiesa di San Domenico Soriano. Il palazzo Spinelli. 
- A durici anne annav a faticà là ‘ngopp. Ce steva na fabbrica e scarpe e io facevo o’ scarparo. Facev sulo e’ sòle re scarpe veramente. Pecchè ognuno là faceva na cosa diversa. Tu ossaje comm s’ fa na scarpa? Poi mammà a via ‘e miezeiuòrno m’purtava a merenna. Là ce steva semp l’addore e ciori ru piano e gopp che scenneva abbascio e sa ammischiava ca a povere.  Nun l’aggio chiù truvato chell addore.

Dei fiori per esempio non sapevo nulla. Mi lascio andare sul sedile della metropolitana, soltanto due fermate dalla Stazione Centrale per arrivare al cuore della città. Guardo le gallerie del sottosuolo rotolare via, piccole fiammelle indicano cantieri ancora aperti.  Risalgo dal ventre tufaceo fino ai Ventaglieri su una scala mobile luminosa. La folla di Montesanto è uno sciame in movimento, gomiti e spalle, facce che saltano su all’improvviso, ti cercano gli occhi. Vogliono sapere se sei uno di loro. Sei nella mia tasca, ti sto portando lì. Quanti anni sono che manchi? Cinquanta? Sessanta? 

La salita è ripida, sui lastroni di arenaria si aggrappa una patina di grasso che lucida la pietra nera e rende il passo scivoloso. L’aria è piena di luce ordinaria, un assolato pomeriggio di metà giugno. I raggi filtrano nei vicoli stretti, pieni di stendini con i panni stesi, gente che mangia col tavolo sulla strada come stesse in giardino a prendere il sole. Sono piccole esplosioni di colore i bassi al pian terreno con le tv al plasma enormi accese e chiassose. Le stanze in miniatura hanno ghirigori di cartongesso color oro, color cipria, bianco lucido. Sfarzi ridicoli di colonne doriche in quella miseria sconsolata. Dentro ci sta gente che nella vita cresce sapendo di dover dare il minimo ingombro possibile e acchiappa tutto con i denti digrignanti. Giriamo attorno ai palazzi, nei vicoli stretti e bui dove un odore di corpi vecchi che si addormentano cullati da una sedia a dondolo ci prende alla gola. Il vagito di un neonato nel basso accanto. Una madre che urla. Il cantante neomelodico della Bollywood partenopea. Le sgommate dei motorini impazziti e il loro fracasso infernale. Edifici addossati gli uni agli altri, fili del bucato che si intrecciano, luci sbilenche, ciuffi di parietaria agli angoli, scorticate le scale negli androni dei palazzi, l'odore del lievito nelle pizzerie, la farina a terra, arabeschi di luce e ombra sulle superfici lastricate. C’è troppa ignoranza, troppa vanità, troppa frustrazione. E nessuna rabbia. 

Tu sei un foglio, ora io sono i tuoi occhi. Con la mano sulla tasca dei jeans, ti porto, come fossi un bambino. Largo Tarsia è uno spiazzo all’ombra di Palazzo Spinelli. Cerco la bottega di scarpe, la polvere, la segatura, la colla. Chiudo gli occhi per vedere meglio. Scende dal primo piano il glicine in fiore.  Resto ferma. Guardo la tua fabbrica, la tua casa, e penso a mille cose diverse, sensate, folli, stupide. Ma ti ho portato a casa ed è l’unica cosa che conta adesso. A vote se sente a malincunia. Allora s’adda turnà, mi dicevi quando per mesi e mesi me ne stavo lontana.    

L’ultima volta ti ho salutato con un bacio e per sbaglio mi hai toccato i capelli. Hai ritratto la mano subito. Ma sei rimasto assorto un minuto.
- Hai fatt e capill luong?
- Toccali -, ho detto io. Non ho aspettato che rispondessi. Ti ho preso una mano e ho sciolto la coda.
- E che colore so’?
- Sono bionda.
- Ah, già. Me l’ann ritt.

Una lunga pausa. Un silenzio. Sentivo il dolore pervadere tutti  i gangli del tuo corpo, arrivare al midollo. Dietro di te c’era soltanto un piccolo vuoto mucchietto di morte.                                        

- Nonno, ti fa male adesso?
- No. Ma vuless fà ambress.


E' buio fuori. I finestrini del treno delle 19.19 sono appannati, l'aria condizionata fredda crea una sorta di condensa. Le città e i mari scivolano sotto le rotaie mentre io divento sempre più pesante. So che devo lasciarti andare.


Buon viaggio, nonno.