Sei nella
mia tasca e mi fai uno strano effetto. Ci entri appena. Camminare è un affondo
pesante sul catrame che ribolle. Il caldo mi riempie la testa, a un tratto mi
fermo. La folla mi attraversa, impreca, mi scansa. Qualcuno bestemmia. A venti
metri da me la Stazione Centrale. Mi assale uno scrupolo assurdo. Sfilo il
foglio, lo spiego veloce. Respiro. Le pieghe della cellulosa sul tuo nome, ho
pensato, l’inchiostro già grinzoso e screpolato sulle lettere. Non lo avrei
sopportato. Sento lo scricchiolio delle tue ossa che si ricompongono. Ditate
sudate ovunque, liscio la carta a mani tese. Questo foglio è tutto quel che mi
rimane. Questo foglio lo devo tenere bene mi dico. Stendo i bordi con i palmi.
Non ti ho mai toccato così tanto in tutta la mia vita.
Prima di
ieri ti ho soltanto sfiorato. Ti sedevo accanto e tu avevi orecchie grandi e
rosse e maneggiavi la sigaretta facendola roteare prima di accenderla per
trovare il verso giusto dal quale succhiare ossigeno oppiaceo. Allungandoti il
pacchetto semivuoto sentivo la pelle incancrenita dal tabacco, la scorza dura
di polpastrelli scarniti dalla nicotina. Adesso un rettangolo bianco conserva
le tue ginocchia nodose. Ti osservo mentre le attorcigli l’una sull’altra,
inerpicandoti lungo le gambe di legno della sedia. Il tavolo, la stanza,
la casa sono un’estensione del tuo corpo legnoso. Negli ultimi anni ti sei
trasformato in un nonno albero. Muscoli lunghi e accavallati, filamenti nervosi
e tesi. Cavi d’acciaio e radici. Sul foglio ci sono cose che non voglio sapere.
Qualcosa che mi riguarda e che mi strazia. E allora le mani accarezzano
soltanto lo spazio bianco. Hai preso la forma tonda del mio fianco. Non ti ho
mai abbracciato, uno di quegli abbracci in cui ti lasci andare intendo.
L’intimità fra noi è stata una confidenza senza permesso. Arrivavo in silenzio,
appoggiavo le mani sulle spalle stanche di un vecchio arrotolato su una sedia. “Chi è?”, ti dicevo, “indovina!”. Nonno, sono tornata, volevo
dirti. “Stong fumann, nun ò vir?”,
dicevi senza girarti.
Ho fatto un
rapido calcolo, una stima per difetto. Sono cinquecentodiciottomila e trecento
o forse anche di più. Succhiate fino al midollo. Col mozzicone sputato solo
quando si spegneva tra le dita. Ho contato pure l'ultima Malboro, quella prima
del sonno. Una smorfia mi parte sulle labbra e me ne accorgo solo dopo: è
andata proprio come volevi.
Hai perso la
vista intorno ai trenta anni e altri cinquanta li hai passati al buio. Avrei
voluto chiedertelo tante volte. C’erano quelle pause che prendevi fra una
voluta di fumo e l’altra, e io ogni volta pronta a farle cadere quasi per caso
le parole, come la cenere infuocata che ti finiva addosso e ti bucherellava i
pantaloni. Nonno come è il buio? Come si
sta? Mi hanno detto che un cieco compensa sviluppando gli altri sensi. Io
ti trovavo inginocchiato sui mattoni dell’aiuola in giardino, con un secchio
d’acqua e il terreno sciolto dentro e una ventina di rami di rose rinsecchite
morte da un pezzo. Ti ostinavi a piantarli, a innaffiarli, misuravi la distanza
come un agrimensore egizio che si fida solo delle sue mani. Rami che non
sarebbero mai più stati rose. Mi accorgevo di te da lontano, appena imboccavo
il viale, il tuo secchio di acqua santa, le mani che trafficavano fra il grembo
e la terra bagnata e inginocchiato così ogni volta mi chiedevo se non stessi
pregando. Perché era un atto di fede ostinarsi con la vita in quel modo. Oppure
un sesto senso che avevi sviluppato e che mi sfuggiva. Fa paura il buio, nonno?, quanto vorrei avertelo chiesto. Il buio è
nero e basta, mi rispondevo ingoiando parole che andavano in fumo.
Il tuo nome
sta nel secondo quarto di foglio, il rettangolo di destra intendo. Me ne sto
ferma nel bel mezzo della folla furiosa, e ricontrollo. Una fissazione assurda.
No, non ti toccano le scanalature della carta, l’usura del quotidiano ancora
non ha fatto di te carta straccia. Sei diventato un A4 e mi fai uno strano
effetto. Ma tu non sai nemmeno cosa è un A4, vero? Sorrido perché conosco quel
tuo restare immobile per qualche secondo quando dico una parola che non
conosci, come per annusarne la scia e un attimo dopo dire: Ch r’è? Come ti immagini un foglio di carta? Un semplicissimo
foglio di carta? Ecco, proprio così, quelle misure standard. Un A4. Sei
diventato un nome in grassetto che fuggo disperatamente. Ti sta accanto, in
corsivo, la data di ieri. Fra te e ieri ha messo una virgola quella
dell’anagrafe. Soltanto una virgola. E questa cosa mi fa schizzare il sangue
alla testa. Pretendevo un punto, un paragrafo di separazione, un’interlinea di
distanza. Siete ancora due cose diverse tu e quello che è successo ieri.
All’impiegata stavo per dire qualcosa ma poi ci ho ripensato.
In realtà
questa sensazione dura da prima che tu diventassi foglio. Mi sono svegliata nel
cuore della notte ed era già qui ad aspettarmi. Devo farlo, pensavo. E’ solo
una stupida roba burocratica. Non è nulla. Devo farlo. Alle nove e un minuto
attendo che l’ufficio apra, stringo un numero scritto su un triangolo di carta
strappato male. Anche se non avresti potuto vederla quella donna era
esattamente ciò che intendevo quando ti dicevo: - A volte non ti perdi nulla se
non vedi certe cose, ti risparmi solo qualche dispiacere. E tu in una nuvola di
catrame fumante mi dicevi: Ch vuò ricere? E lasciavi perdere.
L’ufficio
perde calcinacci, rovinano sul battiscopa come polvere, il corpo di lei è un
ammasso di faldoni impilati l’uno sull’altro, cementificati da muffe e umidità.
Grassa, unta, con gli occhiali che le scivolano sul naso. Non ispira simpatia,
ha un viso solido e qualcosa di incastrato nei denti. La lingua le si contorce
sotto il palato facendo oscillare appena il mento. In mente mia ti dico: mi hai
fatto finire fin qui.
- Salve, mi
serve un certificato di morte. Qui ci sono tutti i dati che le occorrono,- e le
allungo un foglietto sul quale mi ero annotata tutto.
- Si, - mi
risponde lei, e non si muove. Non muove un muscolo.
- Allora,-
dico io, - può farlo per favore? -. La sua flemma è una scheggia di osso
nella mia carne.
- Si, - dice
lei.
La fronte
lucida e quelle borse gonfie sotto gli occhi emergono dalla penombra
dell’ufficio come un’enorme balena inabissata che sta risalendo in superficie.
Come quel fottuto certificato di morte lontano anni luce che si avvicina alla
mia mano. Il foglio sbuca dalla stampante e il timbro è un pugno in faccia.
Sputo denti rotti e sangue e vado via. Il mio treno parte fra meno di un’ora.
Ripiego il
foglio, sei di nuovo nella mia tasca. Sono arrivata, devo cercare il binario,
poi siederò al mio posto e per sei ore spegnerò il cervello. La Stazione
Centrale è un forno. Particelle di odori viaggiano a velocità supersonica, si
aggrappano a pezzi di canottiera, ai nei sporgenti, a scampoli di pensieri. La
pelle dolciastra dell’uomo che mi taglia la strada, il tanfo del barbone che ha
dormito per terra e ha sentito l’asfalto sudare e rilasciare calore, lo
zucchero a velo delle sfogliatelle calde che squaglia, l’orina dei bagni che
sale come vapore acqueo, il disinfettante della passamaneria della sala d’attesa,
la polvere che alzano i treni. Macchie umane ovunque. A queste temperature
elevatissime la materia si scompone, la struttura dei corpi si espande. Tutto
si fonde, e che io lo voglia o no, ormai sono dentro. Facce rigide, in coda
alla biglietteria, con le braccia conserte davanti al monitor, trafelate per la
corsa, scoprono insospettabili mollezze e cedimenti. Intorno a me solo persone
stravolte dal caldo e dalla notizia: il treno è stato annullato. Non so dire se
strilla di più l’acciaio morso dai freni sulle rotaie o la signora che ha perso
la coincidenza per Torino. Eppure in un attimo è tutto estremamente chiaro. Ora
ti sento pulsare, maledetto A4. So esattamente cosa devo fare e attendo in
silenzio il mio turno alla biglietteria.
- A che ora parte
l’ultimo treno?
-
L’ultimo?
- Si.
- Guardi che
per i guasti alla linea imputabili alle ferrovie, Trenitalia si impegna a
garantirle un posto sul primo treno utile per la sua destinazione. Non c’è
bisogno che attenda fino a stasera per partire.
- Si, lo so.
L’ultimo treno?
- Vediamo…
19.19.
- Prendo
quello. C’è un deposito bagagli in stazione?
- Si, di
fronte al binario 4.
-
Arrivederci.
E’ stato
allora che mi è venuta quell’idea e immediatamente ho provato una morsa di
rimpianto. Avrei dovuto farlo prima, come tante altre cose. Ma oggi c’è
troppa energia nell’aria perché io possa far finta di nulla. C’è questo calore
che cade pesante su binari, strade, case, persone. Abbiamo circa quattro ore,
nonno, e il caldo quasi nemmeno più lo sento.
L’ultima
volta che ti ho visto avevi voglia di parlare. La tua voce era arrocchita dal
fumo e carica di allusioni. Hai spento la tv e hai lasciato che tutti i rumori
del mondo attorno a noi si raccogliessero nel fumo lento della tua Malboro. Eri
molto malato e lo sapevi. Io non riuscivo a staccare gli occhi da quel
sacchetto a terra che pulsava di vita propria. Un liquido giallo senape, venato
di rosso, lo gonfiava a più riprese. Il tubicino trasparente si animava sotto
il carico dell’urina. Non vedevi ma sapevi tutto. Cerotti bianchi e lunghi ti
incollavano l’addome da parte a parte tenendo più fermo possibile il catetere.
Mi hai sentita avvicinare, ho visto le tue mani che impazzite hanno lasciato
cadere sul tavolo il mozzicone acceso. Sei corso a sistemarti, a tirarti su il
pigiama, a controllare che l’inguine fosse coperto. Si na femmena, hai
detto.
- Tu comme
staje?-, poi mi hai chiesto.
- Sto
lavorando. Sono poche ore al giorno, non mi pesano, ho tempo libero. Posso
scrivere.
- Allora
staje bbuono?
- Vorrei
fare tante altre cose. Ma è un buon compromesso adesso.
- Uno dind'a
vita adda fà a cosa che 'o fa cchiù cuntento. Si uno nasce che sape fà coccose
è bbuon nun pò campà facenna finta e niente. Comm' puoje campà accussì?
- E se gli
altri non sono contenti?
- Chi 'o vò
bene a fine s'accuntenta.
- Non è sempre così.
- Non è sempre così.
- A
vot' a gente nun sape chell che dice ma parl o stess. Tu a staji a sentì?
- Si,
a volte si.
- Dind' a
vita s'anna piglià e decisioni. O accà o allà.
- E tu che
dici?
- Tant
fernesce semp dind' a stess manera.
E’ difficile
immaginare l’irruenza della tua gioventù, il coraggio che ti risollevava ogni
giorno, quell’intreccio di sciagurata disperazione e di momenti belli, di
fugaci squarci di luce nella povertà del dopoguerra. Mi chiedo cosa avresti
fatto tu al mio posto, se eri già così saggio e così pratico della vita. Sono i
tuoi ricordi a colori quelli che mi srotoli sul tavolo. La tua età dell’oro.
Conosco a memoria ogni parola, o almeno così credo. Alla fine c’è sempre
qualcosa che non so di te.
- Quann si
turnata?
- Adesso.
Sono appena arrivata. Ho ancora la valigia in macchina. Che si dice qui?
- Tutt a'
post. E’ arrivata a’stagione nova pure chest ann.
- Domani
voglio andare in città.
- Miezz a
'mmuina?
- Mi manca a
volte tutto quel casino.
- E ‘ngopp a
Largo Tarsia ce vaje semp?
- Si, te
l’ho detto. Lo zio di Gaetano abita lì. E ora che la casa è vuota ci dormiamo
noi.
- E’ nu
palazz e signuor o nu vascetiell’?
- No, la
casa sta in un bel palazzo. Più di trecento metri quadri che affacciano sul
Largo Tarsia. Hanno fatto i lavori di restauro da poco. Il palazzo, per farti
capire, è quel bestione grande, con ancora le stalle per i cavalli al piano
terra, quello che abbraccia tutta la corte sul davanti. Forse lo conosci, è del
settecento, e dietro c’è la Chiesa di San Domenico Soriano. Il palazzo
Spinelli.
- A durici
anne annav a faticà là ‘ngopp. Ce steva na fabbrica e scarpe e io facevo o’
scarparo. Facev sulo e’ sòle re scarpe veramente. Pecchè ognuno là faceva na
cosa diversa. Tu ossaje comm s’ fa na scarpa? Poi mammà a via ‘e miezeiuòrno
m’purtava a merenna. Là ce steva semp l’addore e ciori ru piano e gopp che
scenneva abbascio e sa ammischiava ca a povere. Nun l’aggio chiù truvato
chell addore.
Dei fiori
per esempio non sapevo nulla. Mi lascio andare sul sedile della metropolitana,
soltanto due fermate dalla Stazione Centrale per arrivare al cuore della città.
Guardo le gallerie del sottosuolo rotolare via, piccole fiammelle indicano
cantieri ancora aperti. Risalgo dal ventre tufaceo fino ai Ventaglieri su
una scala mobile luminosa. La folla di Montesanto è uno sciame in movimento,
gomiti e spalle, facce che saltano su all’improvviso, ti cercano gli occhi.
Vogliono sapere se sei uno di loro. Sei nella mia tasca, ti sto portando lì.
Quanti anni sono che manchi? Cinquanta? Sessanta?
La salita è
ripida, sui lastroni di arenaria si aggrappa una patina di grasso che lucida la
pietra nera e rende il passo scivoloso. L’aria è piena di luce ordinaria, un
assolato pomeriggio di metà giugno. I raggi filtrano nei vicoli stretti, pieni
di stendini con i panni stesi, gente che mangia col tavolo sulla strada come
stesse in giardino a prendere il sole. Sono piccole esplosioni di colore i
bassi al pian terreno con le tv al plasma enormi accese e chiassose. Le stanze
in miniatura hanno ghirigori di cartongesso color oro, color cipria, bianco
lucido. Sfarzi ridicoli di colonne doriche in quella miseria sconsolata. Dentro
ci sta gente che nella vita cresce sapendo di dover dare il minimo ingombro
possibile e acchiappa tutto con i denti digrignanti. Giriamo attorno ai
palazzi, nei vicoli stretti e bui dove un odore di corpi vecchi che si
addormentano cullati da una sedia a dondolo ci prende alla gola. Il vagito di un
neonato nel basso accanto. Una madre che urla. Il cantante neomelodico della
Bollywood partenopea. Le sgommate dei motorini impazziti e il loro fracasso
infernale. Edifici addossati gli uni agli altri, fili del bucato che si
intrecciano, luci sbilenche, ciuffi di parietaria agli angoli, scorticate le
scale negli androni dei palazzi, l'odore del lievito nelle pizzerie, la farina
a terra, arabeschi di luce e ombra sulle superfici lastricate. C’è troppa
ignoranza, troppa vanità, troppa frustrazione. E nessuna rabbia.
Tu sei un
foglio, ora io sono i tuoi occhi. Con la mano sulla tasca dei jeans, ti porto,
come fossi un bambino. Largo Tarsia è uno spiazzo all’ombra di Palazzo
Spinelli. Cerco la bottega di scarpe, la polvere, la segatura, la colla. Chiudo
gli occhi per vedere meglio. Scende dal primo piano il glicine in fiore.
Resto ferma. Guardo la tua fabbrica, la tua casa, e penso a mille cose
diverse, sensate, folli, stupide. Ma ti ho portato a casa ed è l’unica cosa che
conta adesso. A vote se sente a malincunia. Allora s’adda turnà, mi
dicevi quando per mesi e mesi me ne stavo lontana.
L’ultima
volta ti ho salutato con un bacio e per sbaglio mi hai toccato i capelli. Hai
ritratto la mano subito. Ma sei rimasto assorto un minuto.
- Hai fatt e capill luong?
- Toccali -, ho detto io. Non ho aspettato che rispondessi. Ti ho preso una mano e ho sciolto la coda.
- E che colore so’?
- Sono bionda.
- Ah, già. Me l’ann ritt.
Una lunga pausa. Un silenzio. Sentivo il dolore pervadere tutti i gangli del tuo corpo, arrivare al midollo. Dietro di te c’era soltanto un piccolo vuoto mucchietto di morte.
- Nonno, ti fa male adesso?
- No. Ma vuless fà ambress.
E' buio fuori. I finestrini del treno delle 19.19 sono appannati, l'aria condizionata fredda crea una sorta di condensa. Le città e i mari scivolano sotto le rotaie mentre io divento sempre più pesante. So che devo lasciarti andare.
Buon viaggio, nonno.
- Hai fatt e capill luong?
- Toccali -, ho detto io. Non ho aspettato che rispondessi. Ti ho preso una mano e ho sciolto la coda.
- E che colore so’?
- Sono bionda.
- Ah, già. Me l’ann ritt.
Una lunga pausa. Un silenzio. Sentivo il dolore pervadere tutti i gangli del tuo corpo, arrivare al midollo. Dietro di te c’era soltanto un piccolo vuoto mucchietto di morte.
- Nonno, ti fa male adesso?
- No. Ma vuless fà ambress.
E' buio fuori. I finestrini del treno delle 19.19 sono appannati, l'aria condizionata fredda crea una sorta di condensa. Le città e i mari scivolano sotto le rotaie mentre io divento sempre più pesante. So che devo lasciarti andare.
Buon viaggio, nonno.