“Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? Che vuol dir questa
Solitudine immensa? Ed io che sono?”
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Giacomo Leopardi
“Mi tolgo gli occhiali e guardo
l’infinito.”
La miopia sfuma i contorni delle
cose, una cataratta vischiosa che protegge le certezze di una vita. E’ un
barlume lattiginoso che lucida gli amori e fa brillare le ombre. O’ Spicchiato, mozzo miope, lo sa bene e
inforca i suoi occhiali per dare forma al mondo. Lui si è perso nei cieli
stellati degli oceani e ha guardato le barriere coralline. O’
Spicchiato è pazzo, si è innamorato del mare. Noi invece della miopia non
sospettavamo nulla, eppure certe storie ce le hanno dovute mettere sotto gli
occhi perché altrimenti non riuscivamo a vederle. Terribilmente ciechi.
Emma Dante reinventa un teatro
antico. C’è una tensione palpabile nelle storie, nelle cose, nei dettagli. Il
suo è un teatro di antagonismo. Non vuole esserlo programmaticamente, ma
finisce per diventarlo perché oggi raccontare il dolore corrisponde a
“provocare”. La Trilogia
si pone su questa falsariga, provoca nel senso più intimo e antico del termine:
“chiama avanti” nuove domande, “chiama fuori” stereotipi logori. Poi smonta ad
una ad una queste nostre verità, come bambole rotte nelle mani di una bimba
visionaria. Il teatro diventa necessità, rompe, lacera. E ci riempie di gioia
il cuore. Abbiamo a che fare con il corpo, con gli odori, i sapori , con la
luce negli occhi degli attori. E noi non siamo più abituati a guardare.
La Trilogia degli occhiali è
un trittico, tre atti - Acquasanta, Il
castello della Zisa e Ballerini - slegati e perfettamente autonomi eppure magistralmente
coniugati insieme. Un esempio felice in cui il valore complementare dell’unione
supera di gran lunga la somma degli elementi dell’insieme, la sinergia di
queste storie ha per risultato un’evidenza empirica: il nostro straniamento.
Le tre storie sono tragiche e
struggenti, ciascuna a suo modo. Fanno ridere e piangere insieme, sono un pugno
nello stomaco, un cazzotto in faccia, una carezza. Ogni storia è un naufragio e
una scheggia nella memoria. Uno squarcio elettrico di luce che rompe la nostra
miopia. Gli attori si danno con generosità e slancio in uno sforzo estremo:
sanno che l’anima passa attraverso il sudore e lo scricchiolio delle ossa.
Il lirismo dei dimenticati ha un
fascino particolare. Si sente la vita pulsare, si può ancora far poesia. La
parola è scarnificata, impastata di dialetto, di viscere e saliva, sbiascicata,
sputata. Sul palco solo la fisicità espressionistica dei corpi, la regia è un
lavoro di sottrazione. Sopravvivono il respiro, la voce, il cuore, lo stomaco.
Acquasanta è la storia di un “mezzomozzo” innamorato del mare. E’
imbarcato da quando aveva quindici anni, alla terraferma non ci crede più.
Carmine Maringola ci regala un’interpretazione sublime. Amplifica il gesto che
genera la parola, improvvisa come pochi sanno fare, sbava, sbraita, scalcia,
balla, vola. Tira fuori l’anima, la stilla fra le gocce di sudore che gli
imperlano la fronte. Il presente è l’unico tempo che il mezzomozzo abita. La
sua vita, la sua storia durano il fiato dello sguardo al pubblico. Cuce insieme
passato e futuro, ne fa frammenti di eternità e a questi affida la sua
dichiarazione d’amore al mare.
E’ uno sproloquio di passione
quello dello Spicchiato ormai
abbandonato dai compagni, crocefisso al
suolo della terraferma. Così si inventa la prua di una nave e rivive la sua
vita a bordo, gli ultimi giorni prima dell’abbandono, la ciurma, il capitano. Fluttuante
e molleggiato, nuota abbracciato al mare sotto una nuvoletta ticchettante del
firmamento. Quando lo abbandoniamo al suo destino è ormai un derelitto pezzo di
legno, una marionetta in balia di gomene e ancore. Ogni cosa è studiata nel
dettaglio. Gli schizzi d’acqua, i flutti sulla faccia: solo questo e nulla più
rimane al mezzomozzo. Ma noi abbiamo gli occhi pieni di sale.
La Trilogia assomiglia al
trittico dei “Tre studi per una
crocifissione” di Bacon, per quel grumo irrisolto di inquietudine che delle
tre pieces è il filo d’Arianna, per quella croce che si portano dietro tutti i “cecati”.
La sopravvivenza scandalosa del sacro e la sua commistione spuria con il profano
è condensata nella simbologia blasfema di un teatro senza pudori.
Alcuni critici hanno proposto una
lettura dantesca contemporanea della Trilogia: la vecchiaia dei Ballerini come un paradiso profano, la
povertà oppiacea di Acquasanta come
purgatorio di commistione fra lacrime e risate, la malattia di Nicola ne Il Castello della Zisa come inferno
implacabile. La trilogia degli occhiali è un disegno sulla sabbia, un omaggio
neorealista e visionario. Possiamo mettere in fila indiana le tre sofferenze, farne
dei numeri ordinali come saliscendi oppure pensarle insieme come un disegno
compiuto.
Importa poco, in fondo. Quel che
conta è riuscire a guardarlo in faccia il dolore, senza filtri né resistenze né
diottrie di miopia. Forse serve fuggire le visioni d’insieme organiche, quelle
che spiegano tutto, che mettono i punti fermi e fanno dormire sereni. Sono disegni
frammentati, discontinui e misteriosi le uniche cose che si fanno ricordare. Ed
è così che intendo la
Trilogia.
Forse perché sono miope anch’io,
per davvero, e so apprezzare gli occhiali.