domenica 6 gennaio 2013

Acquasanta



“Mille cose sai tu, mille discopri,
che son celate al semplice pastore.
Spesso quand’io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovver con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? Che vuol dir questa
Solitudine immensa? Ed io che sono?”
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Giacomo Leopardi








“Mi tolgo gli occhiali e guardo l’infinito.”



La miopia sfuma i contorni delle cose, una cataratta vischiosa che protegge le certezze di una vita. E’ un barlume lattiginoso che lucida gli amori e fa brillare le ombre. O’ Spicchiato, mozzo miope, lo sa bene e inforca i suoi occhiali per dare forma al mondo. Lui si è perso nei cieli stellati degli oceani e ha guardato le barriere coralline.  O’ Spicchiato è pazzo, si è innamorato del mare. Noi invece della miopia non sospettavamo nulla, eppure certe storie ce le hanno dovute mettere sotto gli occhi perché altrimenti non riuscivamo a vederle. Terribilmente ciechi.

Emma Dante reinventa un teatro antico. C’è una tensione palpabile nelle storie, nelle cose, nei dettagli. Il suo è un teatro di antagonismo. Non vuole esserlo programmaticamente, ma finisce per diventarlo perché oggi raccontare il dolore corrisponde a “provocare”. La Trilogia si pone su questa falsariga, provoca nel senso più intimo e antico del termine: “chiama avanti” nuove domande, “chiama fuori” stereotipi logori. Poi smonta ad una ad una queste nostre verità, come bambole rotte nelle mani di una bimba visionaria. Il teatro diventa necessità, rompe, lacera. E ci riempie di gioia il cuore. Abbiamo a che fare con il corpo, con gli odori, i sapori , con la luce negli occhi degli attori. E noi non siamo più abituati a guardare.

La Trilogia degli occhiali è un trittico, tre atti - Acquasanta, Il castello della Zisa e Ballerini - slegati e perfettamente autonomi eppure magistralmente coniugati insieme. Un esempio felice in cui il valore complementare dell’unione supera di gran lunga la somma degli elementi dell’insieme, la sinergia di queste storie ha per risultato un’evidenza empirica: il nostro straniamento.
Le tre storie sono tragiche e struggenti, ciascuna a suo modo. Fanno ridere e piangere insieme, sono un pugno nello stomaco, un cazzotto in faccia, una carezza. Ogni storia è un naufragio e una scheggia nella memoria. Uno squarcio elettrico di luce che rompe la nostra miopia. Gli attori si danno con generosità e slancio in uno sforzo estremo: sanno che l’anima passa attraverso il sudore e lo scricchiolio delle ossa.


Il lirismo dei dimenticati ha un fascino particolare. Si sente la vita pulsare, si può ancora far poesia. La parola è scarnificata, impastata di dialetto, di viscere e saliva, sbiascicata, sputata. Sul palco solo la fisicità espressionistica dei corpi, la regia è un lavoro di sottrazione. Sopravvivono il respiro, la voce, il cuore, lo stomaco.

Acquasanta è la storia di un “mezzomozzo” innamorato del mare. E’ imbarcato da quando aveva quindici anni, alla terraferma non ci crede più. Carmine Maringola ci regala un’interpretazione sublime. Amplifica il gesto che genera la parola, improvvisa come pochi sanno fare, sbava, sbraita, scalcia, balla, vola. Tira fuori l’anima, la stilla fra le gocce di sudore che gli imperlano la fronte. Il presente è l’unico tempo che il mezzomozzo abita. La sua vita, la sua storia durano il fiato dello sguardo al pubblico. Cuce insieme passato e futuro, ne fa frammenti di eternità e a questi affida la sua dichiarazione d’amore al mare.

E’ uno sproloquio di passione quello dello Spicchiato ormai abbandonato dai compagni,  crocefisso al suolo della terraferma. Così si inventa la prua di una nave e rivive la sua vita a bordo, gli ultimi giorni prima dell’abbandono, la ciurma, il capitano. Fluttuante e molleggiato, nuota abbracciato al mare sotto una nuvoletta ticchettante del firmamento. Quando lo abbandoniamo al suo destino è ormai un derelitto pezzo di legno, una marionetta in balia di gomene e ancore. Ogni cosa è studiata nel dettaglio. Gli schizzi d’acqua, i flutti sulla faccia: solo questo e nulla più rimane al mezzomozzo. Ma noi abbiamo gli occhi pieni di sale.

La Trilogia assomiglia al trittico dei “Tre studi per una crocifissione” di Bacon, per quel grumo irrisolto di inquietudine che delle tre pieces è il filo d’Arianna, per quella croce che si portano dietro tutti i “cecati”. La sopravvivenza scandalosa del sacro e la sua commistione spuria con il profano è condensata nella simbologia blasfema di un teatro senza pudori. 

Alcuni critici hanno proposto una lettura dantesca contemporanea della Trilogia: la vecchiaia dei Ballerini come un paradiso profano, la povertà oppiacea di Acquasanta come purgatorio di commistione fra lacrime e risate, la malattia di Nicola ne Il Castello della Zisa come inferno implacabile. La trilogia degli occhiali è un disegno sulla sabbia, un omaggio neorealista e visionario. Possiamo mettere in fila indiana le tre sofferenze, farne dei numeri ordinali come saliscendi oppure pensarle insieme come un disegno compiuto.
Importa poco, in fondo. Quel che conta è riuscire a guardarlo in faccia il dolore, senza filtri né resistenze né diottrie di miopia. Forse serve fuggire le visioni d’insieme organiche, quelle che spiegano tutto, che mettono i punti fermi e fanno dormire sereni. Sono disegni frammentati, discontinui e misteriosi le uniche cose che si fanno ricordare. Ed è così che intendo la Trilogia.

Forse perché sono miope anch’io, per davvero, e so apprezzare gli occhiali.











mercoledì 15 agosto 2012

Memoriale del 15 giugno




Sei nella mia tasca e mi fai uno strano effetto. Ci entri appena. Camminare è un affondo pesante sul catrame che ribolle. Il caldo mi riempie la testa, a un tratto mi fermo. La folla mi attraversa, impreca, mi scansa. Qualcuno bestemmia. A venti metri da me la Stazione Centrale. Mi assale uno scrupolo assurdo. Sfilo il foglio, lo spiego veloce. Respiro. Le pieghe della cellulosa sul tuo nome, ho pensato, l’inchiostro già grinzoso e screpolato sulle lettere. Non lo avrei sopportato. Sento lo scricchiolio delle tue ossa che si ricompongono. Ditate sudate ovunque, liscio la carta a mani tese. Questo foglio è tutto quel che mi rimane. Questo foglio lo devo tenere bene mi dico. Stendo i bordi con i palmi. Non ti ho mai toccato così tanto in tutta la mia vita. 

Prima di ieri ti ho soltanto sfiorato. Ti sedevo accanto e tu avevi orecchie grandi e rosse e maneggiavi la sigaretta facendola roteare prima di accenderla per trovare il verso giusto dal quale succhiare ossigeno oppiaceo. Allungandoti il pacchetto semivuoto sentivo la pelle incancrenita dal tabacco, la scorza dura di polpastrelli scarniti dalla nicotina. Adesso un rettangolo bianco conserva le tue ginocchia nodose. Ti osservo mentre le attorcigli l’una sull’altra, inerpicandoti lungo le gambe di legno della sedia.  Il tavolo, la stanza, la casa sono un’estensione del tuo corpo legnoso. Negli ultimi anni ti sei trasformato in un nonno albero. Muscoli lunghi e accavallati, filamenti nervosi e tesi. Cavi d’acciaio e radici. Sul foglio ci sono cose che non voglio sapere. Qualcosa che mi riguarda e che mi strazia. E allora le mani accarezzano soltanto lo spazio bianco. Hai preso la forma tonda del mio fianco. Non ti ho mai abbracciato, uno di quegli abbracci in cui ti lasci andare intendo. L’intimità fra noi è stata una confidenza senza permesso. Arrivavo in silenzio, appoggiavo le mani sulle spalle stanche di un vecchio arrotolato su una sedia. “Chi è?”, ti dicevo, “indovina!”. Nonno, sono tornata, volevo dirti. “Stong fumann, nun ò vir?”, dicevi senza girarti. 

Ho fatto un rapido calcolo, una stima per difetto. Sono cinquecentodiciottomila e trecento o forse anche di più. Succhiate fino al midollo. Col mozzicone sputato solo quando si spegneva tra le dita. Ho contato pure l'ultima Malboro, quella prima del sonno. Una smorfia mi parte sulle labbra e me ne accorgo solo dopo: è andata proprio come volevi.

Hai perso la vista intorno ai trenta anni e altri cinquanta li hai passati al buio. Avrei voluto chiedertelo tante volte. C’erano quelle pause che prendevi fra una voluta di fumo e l’altra, e io ogni volta pronta a farle cadere quasi per caso le parole, come la cenere infuocata che ti finiva addosso e ti bucherellava i pantaloni. Nonno come è il buio? Come si sta? Mi hanno detto che un cieco compensa sviluppando gli altri sensi. Io ti trovavo inginocchiato sui mattoni dell’aiuola in giardino, con un secchio d’acqua e il terreno sciolto dentro e una ventina di rami di rose rinsecchite morte da un pezzo. Ti ostinavi a piantarli, a innaffiarli, misuravi la distanza come un agrimensore egizio che si fida solo delle sue mani. Rami che non sarebbero mai più stati rose. Mi accorgevo di te da lontano, appena imboccavo il viale, il tuo secchio di acqua santa, le mani che trafficavano fra il grembo e la terra bagnata e inginocchiato così ogni volta mi chiedevo se non stessi pregando. Perché era un atto di fede ostinarsi con la vita in quel modo. Oppure un sesto senso che avevi sviluppato e che mi sfuggiva. Fa paura il buio, nonno?, quanto vorrei avertelo chiesto. Il buio è nero e basta, mi rispondevo ingoiando parole che andavano in fumo. 

Il tuo nome sta nel secondo quarto di foglio, il rettangolo di destra intendo. Me ne sto ferma nel bel mezzo della folla furiosa, e ricontrollo. Una fissazione assurda. No, non ti toccano le scanalature della carta, l’usura del quotidiano ancora non ha fatto di te carta straccia. Sei diventato un A4 e mi fai uno strano effetto. Ma tu non sai nemmeno cosa è un A4, vero? Sorrido perché conosco quel tuo restare immobile per qualche secondo quando dico una parola che non conosci, come per annusarne la scia e un attimo dopo dire: Ch r’è? Come ti immagini un foglio di carta? Un semplicissimo foglio di carta? Ecco, proprio così, quelle misure standard. Un A4. Sei diventato un nome in grassetto che fuggo disperatamente. Ti sta accanto, in corsivo, la data di ieri. Fra te e ieri ha messo una virgola quella dell’anagrafe. Soltanto una virgola. E questa cosa mi fa schizzare il sangue alla testa. Pretendevo un punto, un paragrafo di separazione, un’interlinea di distanza. Siete ancora due cose diverse tu e quello che è successo ieri. All’impiegata stavo per dire qualcosa ma poi ci ho ripensato.

In realtà questa sensazione dura da prima che tu diventassi foglio. Mi sono svegliata nel cuore della notte ed era già qui ad aspettarmi. Devo farlo, pensavo. E’ solo una stupida roba burocratica. Non è nulla. Devo farlo. Alle nove e un minuto attendo che l’ufficio apra, stringo un numero scritto su un triangolo di carta strappato male. Anche se non avresti potuto vederla quella donna era esattamente ciò che intendevo quando ti dicevo: - A volte non ti perdi nulla se non vedi certe cose, ti risparmi solo qualche dispiacere. E tu in una nuvola di catrame fumante mi dicevi:  Ch vuò ricere? E lasciavi perdere.

L’ufficio perde calcinacci, rovinano sul battiscopa come polvere, il corpo di lei è un ammasso di faldoni impilati l’uno sull’altro, cementificati da muffe e umidità. Grassa, unta, con gli occhiali che le scivolano sul naso. Non ispira simpatia, ha un viso solido e qualcosa di incastrato nei denti. La lingua le si contorce sotto il palato facendo oscillare appena il mento. In mente mia ti dico: mi hai fatto finire fin qui. 

- Salve, mi serve un certificato di morte. Qui ci sono tutti i dati che le occorrono,- e le allungo un foglietto sul quale mi ero annotata tutto. 
- Si, - mi risponde lei, e non si muove. Non muove un muscolo. 
- Allora,- dico io, - può farlo per favore? -. La sua flemma  è una scheggia di osso nella mia carne.
- Si, - dice lei. 

La fronte lucida e quelle borse gonfie sotto gli occhi emergono dalla penombra dell’ufficio come un’enorme balena inabissata che sta risalendo in superficie. Come quel fottuto certificato di morte lontano anni luce che si avvicina alla mia mano. Il foglio sbuca dalla stampante e il timbro è un pugno in faccia. Sputo denti rotti e sangue e vado via. Il mio treno parte fra meno di un’ora.

Ripiego il foglio, sei di nuovo nella mia tasca. Sono arrivata, devo cercare il binario, poi siederò al mio posto e per sei ore spegnerò il cervello. La Stazione Centrale è un forno. Particelle di odori viaggiano a velocità supersonica, si aggrappano a pezzi di canottiera, ai nei sporgenti, a scampoli di pensieri. La pelle dolciastra dell’uomo che mi taglia la strada, il tanfo del barbone che ha dormito per terra e ha sentito l’asfalto sudare e rilasciare calore, lo zucchero a velo delle sfogliatelle calde che squaglia, l’orina dei bagni che sale come vapore acqueo, il disinfettante della passamaneria della sala d’attesa, la polvere che alzano i treni. Macchie umane ovunque. A queste temperature elevatissime la materia si scompone, la struttura dei corpi si espande. Tutto si fonde, e che io lo voglia o no, ormai sono dentro. Facce rigide, in coda alla biglietteria, con le braccia conserte davanti al monitor, trafelate per la corsa, scoprono insospettabili mollezze e cedimenti. Intorno a me solo persone stravolte dal caldo e dalla notizia: il treno è stato annullato. Non so dire se strilla di più l’acciaio morso dai freni sulle rotaie o la signora che ha perso la coincidenza per Torino. Eppure in un attimo è tutto estremamente chiaro. Ora ti sento pulsare, maledetto A4. So esattamente cosa devo fare e attendo in silenzio il mio turno alla biglietteria. 

- A che ora parte l’ultimo treno?  
- L’ultimo? 
- Si. 
- Guardi che per i guasti alla linea imputabili alle ferrovie, Trenitalia si impegna a garantirle un posto sul primo treno utile per la sua destinazione. Non c’è bisogno che attenda fino a stasera per partire.  
- Si, lo so. L’ultimo treno? 
- Vediamo… 19.19. 
- Prendo quello. C’è un deposito bagagli in stazione?  
- Si, di fronte al binario 4.
- Arrivederci.

E’ stato allora che mi è venuta quell’idea e immediatamente ho provato una morsa di rimpianto.  Avrei dovuto farlo prima, come tante altre cose. Ma oggi c’è troppa energia nell’aria perché io possa far finta di nulla. C’è questo calore che cade pesante su binari, strade, case, persone. Abbiamo circa quattro ore, nonno, e il caldo quasi nemmeno più lo sento. 

L’ultima volta che ti ho visto avevi voglia di parlare. La tua voce era arrocchita dal fumo e carica di allusioni. Hai spento la tv e hai lasciato che tutti i rumori del mondo attorno a noi si raccogliessero nel fumo lento della tua Malboro. Eri molto malato e lo sapevi. Io non riuscivo a staccare gli occhi da quel sacchetto a terra che pulsava di vita propria. Un liquido giallo senape, venato di rosso, lo gonfiava a più riprese. Il tubicino trasparente si animava sotto il carico dell’urina. Non vedevi ma sapevi tutto. Cerotti bianchi e lunghi ti incollavano l’addome da parte a parte tenendo più fermo possibile il catetere. Mi hai sentita avvicinare, ho visto le tue mani che impazzite hanno lasciato cadere sul tavolo il mozzicone acceso. Sei corso a sistemarti, a tirarti su il pigiama, a controllare che l’inguine fosse coperto. Si na femmena, hai detto.

- Tu comme staje?-, poi mi hai chiesto.
- Sto lavorando. Sono poche ore al giorno, non mi pesano, ho tempo libero. Posso scrivere.
- Allora staje bbuono?
- Vorrei fare tante altre cose. Ma è un buon compromesso adesso.
- Uno dind'a vita adda fà a cosa che 'o fa cchiù cuntento. Si uno nasce che sape fà coccose è bbuon nun pò campà facenna finta e niente. Comm' puoje campà accussì?
- E se gli altri non sono contenti?
- Chi 'o vò bene a fine s'accuntenta.
- Non è sempre così.
 - A vot' a gente nun sape chell che dice ma parl o stess. Tu a staji a sentì?
 - Si, a volte si.
- Dind' a vita s'anna piglià e decisioni. O accà o allà. 
- E tu che dici? 
- Tant fernesce semp dind' a stess manera.

E’ difficile immaginare l’irruenza della tua gioventù, il coraggio che ti risollevava ogni giorno, quell’intreccio di sciagurata disperazione e di momenti belli, di fugaci squarci di luce nella povertà del dopoguerra. Mi chiedo cosa avresti fatto tu al mio posto, se eri già così saggio e così pratico della vita. Sono i tuoi ricordi a colori quelli che mi srotoli sul tavolo. La tua età dell’oro. Conosco a memoria ogni parola, o almeno così credo. Alla fine c’è sempre qualcosa che non so di te.

- Quann si turnata? 
- Adesso. Sono appena arrivata. Ho ancora la valigia in macchina. Che si dice qui? 
- Tutt a' post. E’ arrivata a’stagione nova pure chest ann.
- Domani voglio andare in città.
- Miezz a 'mmuina?
- Mi manca a volte tutto quel casino.
- E ‘ngopp a Largo Tarsia ce vaje semp?
- Si, te l’ho detto. Lo zio di Gaetano abita lì. E ora che la casa è vuota ci dormiamo noi.
- E’ nu palazz e signuor o nu vascetiell’? 
- No, la casa sta in un bel palazzo. Più di trecento metri quadri che affacciano sul Largo Tarsia. Hanno fatto i lavori di restauro da poco. Il palazzo, per farti capire, è quel bestione grande, con ancora le stalle per i cavalli al piano terra, quello che abbraccia tutta la corte sul davanti. Forse lo conosci, è del settecento, e dietro c’è la Chiesa di San Domenico Soriano. Il palazzo Spinelli. 
- A durici anne annav a faticà là ‘ngopp. Ce steva na fabbrica e scarpe e io facevo o’ scarparo. Facev sulo e’ sòle re scarpe veramente. Pecchè ognuno là faceva na cosa diversa. Tu ossaje comm s’ fa na scarpa? Poi mammà a via ‘e miezeiuòrno m’purtava a merenna. Là ce steva semp l’addore e ciori ru piano e gopp che scenneva abbascio e sa ammischiava ca a povere.  Nun l’aggio chiù truvato chell addore.

Dei fiori per esempio non sapevo nulla. Mi lascio andare sul sedile della metropolitana, soltanto due fermate dalla Stazione Centrale per arrivare al cuore della città. Guardo le gallerie del sottosuolo rotolare via, piccole fiammelle indicano cantieri ancora aperti.  Risalgo dal ventre tufaceo fino ai Ventaglieri su una scala mobile luminosa. La folla di Montesanto è uno sciame in movimento, gomiti e spalle, facce che saltano su all’improvviso, ti cercano gli occhi. Vogliono sapere se sei uno di loro. Sei nella mia tasca, ti sto portando lì. Quanti anni sono che manchi? Cinquanta? Sessanta? 

La salita è ripida, sui lastroni di arenaria si aggrappa una patina di grasso che lucida la pietra nera e rende il passo scivoloso. L’aria è piena di luce ordinaria, un assolato pomeriggio di metà giugno. I raggi filtrano nei vicoli stretti, pieni di stendini con i panni stesi, gente che mangia col tavolo sulla strada come stesse in giardino a prendere il sole. Sono piccole esplosioni di colore i bassi al pian terreno con le tv al plasma enormi accese e chiassose. Le stanze in miniatura hanno ghirigori di cartongesso color oro, color cipria, bianco lucido. Sfarzi ridicoli di colonne doriche in quella miseria sconsolata. Dentro ci sta gente che nella vita cresce sapendo di dover dare il minimo ingombro possibile e acchiappa tutto con i denti digrignanti. Giriamo attorno ai palazzi, nei vicoli stretti e bui dove un odore di corpi vecchi che si addormentano cullati da una sedia a dondolo ci prende alla gola. Il vagito di un neonato nel basso accanto. Una madre che urla. Il cantante neomelodico della Bollywood partenopea. Le sgommate dei motorini impazziti e il loro fracasso infernale. Edifici addossati gli uni agli altri, fili del bucato che si intrecciano, luci sbilenche, ciuffi di parietaria agli angoli, scorticate le scale negli androni dei palazzi, l'odore del lievito nelle pizzerie, la farina a terra, arabeschi di luce e ombra sulle superfici lastricate. C’è troppa ignoranza, troppa vanità, troppa frustrazione. E nessuna rabbia. 

Tu sei un foglio, ora io sono i tuoi occhi. Con la mano sulla tasca dei jeans, ti porto, come fossi un bambino. Largo Tarsia è uno spiazzo all’ombra di Palazzo Spinelli. Cerco la bottega di scarpe, la polvere, la segatura, la colla. Chiudo gli occhi per vedere meglio. Scende dal primo piano il glicine in fiore.  Resto ferma. Guardo la tua fabbrica, la tua casa, e penso a mille cose diverse, sensate, folli, stupide. Ma ti ho portato a casa ed è l’unica cosa che conta adesso. A vote se sente a malincunia. Allora s’adda turnà, mi dicevi quando per mesi e mesi me ne stavo lontana.    

L’ultima volta ti ho salutato con un bacio e per sbaglio mi hai toccato i capelli. Hai ritratto la mano subito. Ma sei rimasto assorto un minuto.
- Hai fatt e capill luong?
- Toccali -, ho detto io. Non ho aspettato che rispondessi. Ti ho preso una mano e ho sciolto la coda.
- E che colore so’?
- Sono bionda.
- Ah, già. Me l’ann ritt.

Una lunga pausa. Un silenzio. Sentivo il dolore pervadere tutti  i gangli del tuo corpo, arrivare al midollo. Dietro di te c’era soltanto un piccolo vuoto mucchietto di morte.                                        

- Nonno, ti fa male adesso?
- No. Ma vuless fà ambress.


E' buio fuori. I finestrini del treno delle 19.19 sono appannati, l'aria condizionata fredda crea una sorta di condensa. Le città e i mari scivolano sotto le rotaie mentre io divento sempre più pesante. So che devo lasciarti andare.


Buon viaggio, nonno.

martedì 15 maggio 2012

Incontro.

Sovrastava l’edificio appena ristrutturato un pino alto. Riconobbe il profumo acuto della corteccia bagnata e le gocce di resina che schiumavano ambra. Il tronco era un lungo osso nodoso. Alzava le braccia al cielo. Giunture immobili e gangli scheletrici si specchiarono nelle pupille grigie della ragazza. Le venne spontaneo allora guardare all’insù, sentiva le nuvole agitarsi.
L’ombra degli aghi di pino aveva la stessa forma delle nuvole. Curioso trovare un pino proprio lì, si disse mentre apriva il cancello nero appena accostato. Perché quella era terra di betulle, di cipressi e di tigli. I pini lei li aveva sempre visti affacciati sul mediterraneo, incrostati di sale, fra le rocce frastagliate dallo scirocco, le radici avviluppate in una ragnatela stretta stretta alla terra. Come guardiani delle città del sud, il loro compito era segnare il confine, dove finiva il mare, dove iniziava il cielo. Quel pino invece si allungava placido e slanciato in una terra straniera.
Attraversò il giardino con le due aiuole ai lati. Non c’erano fiori, solo erba tagliata da poco che già impallidiva. E aghi di pino sparsi. Tutto sembrava molto pulito e ben tenuto.
Bussò al campanello e la porta si aprì appena lasciò il dito. Le venne incontro una signora sulla quarantina con un camice bianco fino al ginocchio profilato di giallo.
- Salve, è qui per una visita?
- Vorrei vedere la signora Liliana Maggi, ho chiamato prima.
- Ah, si, ricordo, l’ho presa io la telefonata, la ragazza senza cognome? Venga attenda da questa parte che avverto la signora.
Le indicò la strada con un gesto della mano e si allontanò verso le scale.
Il salone era molto grande. C’erano divani e tavoli bianchi, ovunque cuscini sedie dondolanti poltroncine. Le pareti di un giallo feroce stavano a guardare. Gli angoli erano smussati con piastrelle convesse. Luce liquida rimbalzava da una finestra all’altra. Strisce di lucentezza elettrica e poi zone di penombra, un senso di cose sfocate. C’era qualcosa di innaturale, forse l’odore di medicine, così chimico, ti prendeva alla gola. Sui tavoli giornali aperti e mazzi di carte già spaccati, partite iniziate e lasciate a metà. Il parquet color miele sotto i piedi non doveva esser legno.
- Quello della mia stanza è legno vero – pensò lei - scricchiola e assorbe i passi, questa è plastica, rimbalza – .
L’unico gruppo di poltroncine con il tavolino sgombro era il terzo sulla destra. Chiara si appoggiò appena al cuscino, mantenendosi in bilico. I muscoli contratti, i nervi tesi. Tamburellava le dita sui jeans. Tastò la borsa per assicurarsi di averlo portato, un tic ormai. Era la quarta volta che controllava.
La stanza sapeva di ospedale alcool garze sterili varechina deodoranti piscio profumi per ambienti. Malinconie. Pensò a come sarebbero stati i suoi ultimi giorni, in un acquario così, forse vischiosi della materia dei sogni, giorni abbandonati al torpore delle medicine. Oppure spietati, con istanti lucidissimi e a volte spazi vuoti. Si immaginò giorni che passavano con tanta lentezza da far male. Pensò al grande pino nel cortile, all’odore acre della resina che induriva. Prima quasi inconsistente, quella cosa nell’aria bagnata, poi in ogni spazio si insinuava il suo odore pungente, privo di forma. Gli aghi sparsi sul terreno là fuori. La parola “aghi” le fece venire in mente i cestini. Fece per alzarsi e guardare nei cestini dell’immondizia. Avrebbe trovato le buste piene di aghi usati. Forse di aghi ce n’era addirittura un magazzino intero. Ecco, pensò, questo più di tutto l’avrebbe fatta soffrire. Ne era sicura. Il fatto di dire “aghi” e di non pensare a quei disegni misteriosi che le foglie del pino là fuori formavano una volta cadute ma associare gli aghi alle siringhe invece, a quelle fatte e a quelle ancora da prescrivere. Così si immaginò i suoi ultimi giorni. Si sarebbe lasciata scivolare su quella poltroncina, avrebbe allentato la presa dei muscoli, le gambe a penzoloni. Dicono che da vecchi si diventa piccoli.
Chiara provava quasi disagio adesso, una delusione anticipata come una sorta di tristezza. La stanza le sembrava così finta. C’era tutto il senso di una decadenza inarrestabile. Restò seduta.
Fu sul punto di dire: Vi sembra una cosa intelligente tenerli così? Ma davvero credete che non se ne accorgano? Ma non disse niente perchè le sembrò una cosa troppo crudele.
Il rumore dei passi iniziò quando le porte dell’ascensore si aprirono. Stette ad ascoltare le rotelle pigolanti di una carrozzina, le suole di gomma dura e un terzo rumore che non riusciva bene a definire. Tentò di concentrarsi completamente sull’ascolto.
Sulla carrozzina sedeva una signora dalla pelle bianchissima piena di efelidi e macchie brune. Entrò nel salone. Era una vecchina piccola, aggrappata ai braccioli della sedia a rotelle, con dita tremanti, un filo di labbra, gli occhi nerissimi. Aveva una collana di perle con la chiusura al lato.
L’infermiera che spingeva la carrozzina sembrava pensare ad altro. Chiara si alzò di scatto.
Eccola, era lei.

(breve estratto)

venerdì 6 gennaio 2012

Il quarto





La realtà è che morire non è brutto,
ma dura per sempre.

[David Foster Wallace]








La stanza è rettangolare e odora di corpi vecchi. Più forte di ogni rumore è la voce del televisore. Il volume è altissimo. Non so perché. Servirà a coprire lo schiamazzo dei pensieri, mi dico. Oppure i gemiti gonfi e gassosi dei singhiozzi. Lacrime in libera uscita in questa stanza.

Ci sono tre letti. È la prima volta che vedo letti fatti così. Plastica grigia senza spigoli, come quella dei seggioloni per neonati. Perché è così che ti riducono qui dentro. Sul terzo, l’ultimo, quello vicino alla finestra, se ne sta immobile mio padre. Il lenzuolo lo fascia di bianco e lui mantiene un misurato distacco. Ma io lo so, lo vedo, è terrorizzato. La colpa è di questa stanza, di queste geometrie parallele che non offrono nascondiglio dagli incubi. Sei vivo. Glielo dico sottovoce mentre mi avvicino. Forse qualcuno sente. Sei vivo papà.

Un altro infarto. Il quarto. L’ho saputo domenica mattina. Sabato ho finito tardi al lavoro. Arrivata a casa mi sono accorta di non avere sonno e ho letto per ore prima di addormentarmi. Saranno state le tre di notte quando mi sono svegliata. Tigro mi fissava a un centimetro dalla bocca con gli occhi spalancati. Alle sette il telefono squilla.

Sto ancora parlando con lei, sento il suono della sua voce riempire l’aria. Non capisco quello che mi sta dicendo. Parole senza senso mi circondano la testa. Il mio orecchio ne registra una soltanto, la più terribile. Non me ne rendo conto ma ho già riagganciato.

Mia madre ha una voce secca come il sangue rappreso delle loro lenzuola macchiate. - L’ho sentito che si agitava, perciò mi sono svegliata, - dice, - e allora gli ho chiesto: tutto bene?. – E poi?- , faccio io, - poi cosa è successo?-. Lei tentenna. -Ho allungato una mano verso il lato del letto dove dorme lui. Il cuscino era cado e umido. Qualcosa di vischioso. La luce, ho pensato, dove diavolo è l’interruttore? Ehi, tutto bene? Sei sveglio? Oddio, qui non c’è nessuno.

Un’ora dopo ero sul treno. Tigro mi guardava senza miagolare. Se per accarezzarlo allungavo le dita oltre la grata del trasportino mi inchiodava gli artigli nella carne. Gli occhi gialli addosso. Lo lasciavo fare, ce l’avremmo fatta anche stavolta.

C’è un merlo nel parco di fronte casa. Sta in disparte perché è un solitario. Credo sia l’unico della sua specie fra quegli alberi. Osserva i piccioni da lontano, li sta a guardare, quelli si fiondano in dieci su una sola briciola. Lui salta via. Salterella con grazia, voli piccoli e concentrici, è un guizzo nei miei occhi. Vorrei dar da mangiare solo a lui e non ai piccioni. È il primo uccello di cui non ho paura. Mi chiedo cosa stia facendo adesso. Devo trovare un libro sui merli, così, per saperne di più. Voglio esser preparata alla bellezza, godermelo tutto quell’istante, quando il sole gli sbanda addosso e il nero intrappola la luce. Chissà se ci sono piccoli merli come lui nei giardinetti di questo ospedale. Un piccolo merlo catrame lucente e una briciola di pane tutta per sé. Il dolore allenterebbe appena la presa. Intanto mi avvicino. Eccomi.

Ci sono parenti amici conoscenti curiosi. Mi salutano. Scruto i visi tesi: non c’è zio Antonio. Strano, penso. Non mi ha nemmeno telefonato durante il viaggio. Le altre volte l’ho trovato alla stazione. Senza dirmi nulla mi aspettava al binario. Riservato di indole mio zio, un basco grigio che pende di lato e gli occhi bassi quando pensa. Pare abbia appena perso qualcosa e stia con gli occhi fissi a cercare per terra, fra i mozziconi fetenti e le carte calpestate della Stazione Centrale. – No, non c’è-, lo dico a voce alta, come per convincermene davvero. Continuo a guardarmi attorno, controllo le chiamate perse sul cellulare, le macchine in fila nel traffico. Provo a chiamarlo, ma il telefono è spento. Finché un tassista si avvicina. - Monaldi – dico allora, - il secondo Policlinico, quello della terapia intensiva.

L’ultima volta mio zio aveva sorriso delle vene in rilievo sulle tempie e delle unghie rosicate che tentavano di sopravvivere alla mia ansia. - Mio fratello è uno tosto, dovresti saperlo-. Mi pare di sentire la sua voce adesso mentre il tassista riparte sgommando. Qualcosa nell’aria mi irrita un occhio, forse ci è finita della polvere dentro, inizio a lacrimare.

La prima a venirmi incontro è mia madre. Sembra uno spettro. - Papà è fuori pericolo, no? – le chiedo. Mi abbraccia senza dire nulla. Le parole a volte finiscono. Lo so, e non chiedo altro. Qualcuno mi riconosce e fa col capo un cenno di saluto, abbozza un sorriso. Cerco zio Antonio fra le mani che gesticolano e le spalle che incorniciano il letto. Un lento spiegarsi di corpi, il movimento fluido delle braccia che mi cedono il passo. Si allontanano. Finalmente papà mi vede. Mormora qualcosa, la voce si strozza sulle labbra gelide. Mi accosto a lui respirandone il calore. Vorrei stringerlo forte, buttarmi di peso sul suo letto, baciarlo tutto. - Le emozioni, signorina, mi raccomando. Suo padre è in una situazione molto delicata, - il primario si ferma, come per pensarci meglio, e aggiunge, -Questa cosa è fondamentale: suo padre non può subire altri shock.

Qualcosa non torna. Un tormento strano e feroce negli occhi di papà. Sento quel dolore, l’ho appena respirato. Si propaga lungo le vie nervose, riempie i gangli fino al midollo spinale. Un senso di solitudine nelle ossa. Non è come le altre volte, ci metto poco per capirlo.

Non ho visto mio fratello da quando sono arrivata. Mamma invece l’osservo fare su e giù da una stanza all’altra del reparto. E’ più magra di come me la ricordavo, chissà da quanto non mangia. E’ diventata un’ombra rapida, scura di abiti, con i capelli unti di sudore, le sue braccia nude sono scheletriche. Appare sulla soglia un frammento alla volta, prima i piedi, poi le gambe, le mani, il naso. Una luce disperata nello sguardo. Non capisco perché non stia ferma un secondo. Dov’è zio Antonio? Perché non è qui?

- È successo di notte. L’ambulanza non arrivava, al Pronto Soccorso mi ha portato tuo fratello-, la sua voce mi arriva come un brusio al margine di un brutto sogno. - Subito l’ho riconosciuta la stretta, quella tenaglia. Al quarto attacco lo sai già cos’è quel senso di oppressione acuta. Ero in bagno, mi usciva sangue dal naso. Mi ha trovato così mamma pochi minuti dopo: ero a terra.

- Non sforzarti, papà.

- E’ importante invece.

- L’unica cosa che conta è che tu stia bene adesso.

- Siamo corsi qui in piena notte, senza avvisare nessuno.

- Ti verso un po’ d’acqua?

- Mi stavano controllando il livello degli enzimi quando lui è arrivato. Io non l’ho riconosciuto.

Vorrei chiedere: lui chi, papà? Ma i suoi occhi diventano freddi e immobili. Carichi di attesa. Penso che qualcosa devo pur dire. E’ già stato molto provato, mi raccomando, non gli faccia troppe domande, lo rassicuri. Riempio il bicchiere quasi fino all’orlo. Fa un verso strano con la bocca, scuote il capo, come un diniego, io abbasso lo sguardo e frugo nelle tasche. Le meno banali fra tutte le parole banali che potrei dire, neppure quelle trovo. Mi accorgo di averle finite, le parole. Ero scesa di casa con le tasche piene. Papà, lui chi? Il suo sguardo ora trapassa il mio corpo da parte a parte. Aspetto che riprenda.

-Non potevo, capisci? Ero steso sulla barella a fare i conti con il mio dolore. Non riuscivo a respirare, non riuscivo a muovermi, mi veniva da vomitare. Ho pensato fosse l’ultima. Che al quarto non sarei sopravvissuto. Il pensiero a mamma che restava sola. Tutte quelle volte che mi sussurrava: -Chi di noi per primo? Me lo devi giurare-. -Perché tu? Perché non io? - rispondevo. -Se rimanessi, non sopravvivrei, - in testa avevo la sua voce. Capisci ora?

Poi si ferma nuovamente e non perché il respiro gli manchi. Ma prende fiato lo stesso, adesso deve dirlo, non può più evitarlo.

- Non hai bevuto, papà. Il bicchiere è ancora pieno, te ne sei dimenticato.

- Vorrei poter dimenticare altre cose.

Diceva frasi che mi sembravano senza senso ma che un senso lo avevano.

- Un sorso solo, papà. Uno e poi continui.

- Sono entrati di corsa. Gli allarmi di quei congegni diabolici suonavano tutti, tutti insieme, come tanti timer di bombe ad orologeria. Il rumore era insopportabile. Mi era entrato nei denti, nei capelli. Gli sono corsi intorno. – Un altro disgraziato come me, - questo mi sono detto. Qui dentro un delirio. - Forza, forza, più veloci! - urlavano a trenta centimetri dal mio orecchio. Li ho sentiti preparare il defibrillatore. Qualcuno gridava di fare ancora più in fretta, forse il cardiologo. Poi la scarica, uno, due… I tonfi del suo corpo sul letto. Uno, due… Non so quanto sia durato quel bip che mi ha trapanato la mente. Quel bip che sento ancora e che ho creduto essere il mio. Eravamo nella stessa stanza. Un metro e mezzo di distanza. Gli infermieri si stavano allontanando, non c’era più nulla da fare. Troppo tardi. È stato quando ho sentito le urla di Maria, di Niccolò e di Anita, le loro voci le ho riconosciute subito. Allora mi sono girato.

Le corde vocali vibrano, i polmoni sputano parole che gli esplodono sulla faccia. Nella stanza c’eravamo solo io e lui. - Non è stato un dolore secco, chirurgico, è stata una scarica di bastonate cieche. È stata una collera, una furia. Ho urlato, Dio solo sa quanto ho urlato. La forza che ho trovato per alzarmi, prima di cadere a terra senza raggiungerlo. - E’ mio fratello! E’ mio fratello!

- Che? No, no. Un momento.

- I medici l’hanno chiamato “insulto al cuore”. Ed è così che mi sento: insultato.

- Stai farneticando. Cosa diavolo dici?

- Mi operano di nuovo, a cuore battente stavolta. Ma se il mio cuore batte, io adesso non lo sento.

- Che è successo ieri notte?

- Zio Antonio.



Appoggio la schiena contro il muro e la srotolo. Srotolo le mie costole ad una ad una mentre il sudore freddo mi imperla la fronte, le lacrime si raccolgono nella bocca, la riempiono, giù fino alla trachea. Mi sento affogare. Non mi accorgo di essere per terra. Suona l’allarme dei sensori di mio padre. Stranamente l’unico pensiero di senso compiuto che ho è per nonna. – Insulto al cuore. Menomale che non ci sei più, nonna mia-.


Da quel pomeriggio di ottobre la parola “morte” mio padre non l’ha più pronunciata. La dissimula quando la sta pensando, stringe gli occhi e muove appena le labbra. Io invece ne conservo solo la emme iniziale. Serro la bocca come se la stessi per pronunciare, poi penso a zio Antonio. E dico “merlo”. Si, dico “merlo”. Sottovoce, in modo quasi impercettibile perché nessuno mi capirebbe. Mi piace pensarlo così. Rivedo i suoi occhi piccoli, le lenti spesse da miope, quegli occhiali tondi e buffi che si ostinava a portare. Ora sono fessure vispe e lucenti, occhietti vivaci di un piccolo merlo sul prato. La giacca di velluto a costine è piumaggio lucente. E il dolore allenta appena la presa.







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