venerdì 6 gennaio 2012

Il quarto





La realtà è che morire non è brutto,
ma dura per sempre.

[David Foster Wallace]








La stanza è rettangolare e odora di corpi vecchi. Più forte di ogni rumore è la voce del televisore. Il volume è altissimo. Non so perché. Servirà a coprire lo schiamazzo dei pensieri, mi dico. Oppure i gemiti gonfi e gassosi dei singhiozzi. Lacrime in libera uscita in questa stanza.

Ci sono tre letti. È la prima volta che vedo letti fatti così. Plastica grigia senza spigoli, come quella dei seggioloni per neonati. Perché è così che ti riducono qui dentro. Sul terzo, l’ultimo, quello vicino alla finestra, se ne sta immobile mio padre. Il lenzuolo lo fascia di bianco e lui mantiene un misurato distacco. Ma io lo so, lo vedo, è terrorizzato. La colpa è di questa stanza, di queste geometrie parallele che non offrono nascondiglio dagli incubi. Sei vivo. Glielo dico sottovoce mentre mi avvicino. Forse qualcuno sente. Sei vivo papà.

Un altro infarto. Il quarto. L’ho saputo domenica mattina. Sabato ho finito tardi al lavoro. Arrivata a casa mi sono accorta di non avere sonno e ho letto per ore prima di addormentarmi. Saranno state le tre di notte quando mi sono svegliata. Tigro mi fissava a un centimetro dalla bocca con gli occhi spalancati. Alle sette il telefono squilla.

Sto ancora parlando con lei, sento il suono della sua voce riempire l’aria. Non capisco quello che mi sta dicendo. Parole senza senso mi circondano la testa. Il mio orecchio ne registra una soltanto, la più terribile. Non me ne rendo conto ma ho già riagganciato.

Mia madre ha una voce secca come il sangue rappreso delle loro lenzuola macchiate. - L’ho sentito che si agitava, perciò mi sono svegliata, - dice, - e allora gli ho chiesto: tutto bene?. – E poi?- , faccio io, - poi cosa è successo?-. Lei tentenna. -Ho allungato una mano verso il lato del letto dove dorme lui. Il cuscino era cado e umido. Qualcosa di vischioso. La luce, ho pensato, dove diavolo è l’interruttore? Ehi, tutto bene? Sei sveglio? Oddio, qui non c’è nessuno.

Un’ora dopo ero sul treno. Tigro mi guardava senza miagolare. Se per accarezzarlo allungavo le dita oltre la grata del trasportino mi inchiodava gli artigli nella carne. Gli occhi gialli addosso. Lo lasciavo fare, ce l’avremmo fatta anche stavolta.

C’è un merlo nel parco di fronte casa. Sta in disparte perché è un solitario. Credo sia l’unico della sua specie fra quegli alberi. Osserva i piccioni da lontano, li sta a guardare, quelli si fiondano in dieci su una sola briciola. Lui salta via. Salterella con grazia, voli piccoli e concentrici, è un guizzo nei miei occhi. Vorrei dar da mangiare solo a lui e non ai piccioni. È il primo uccello di cui non ho paura. Mi chiedo cosa stia facendo adesso. Devo trovare un libro sui merli, così, per saperne di più. Voglio esser preparata alla bellezza, godermelo tutto quell’istante, quando il sole gli sbanda addosso e il nero intrappola la luce. Chissà se ci sono piccoli merli come lui nei giardinetti di questo ospedale. Un piccolo merlo catrame lucente e una briciola di pane tutta per sé. Il dolore allenterebbe appena la presa. Intanto mi avvicino. Eccomi.

Ci sono parenti amici conoscenti curiosi. Mi salutano. Scruto i visi tesi: non c’è zio Antonio. Strano, penso. Non mi ha nemmeno telefonato durante il viaggio. Le altre volte l’ho trovato alla stazione. Senza dirmi nulla mi aspettava al binario. Riservato di indole mio zio, un basco grigio che pende di lato e gli occhi bassi quando pensa. Pare abbia appena perso qualcosa e stia con gli occhi fissi a cercare per terra, fra i mozziconi fetenti e le carte calpestate della Stazione Centrale. – No, non c’è-, lo dico a voce alta, come per convincermene davvero. Continuo a guardarmi attorno, controllo le chiamate perse sul cellulare, le macchine in fila nel traffico. Provo a chiamarlo, ma il telefono è spento. Finché un tassista si avvicina. - Monaldi – dico allora, - il secondo Policlinico, quello della terapia intensiva.

L’ultima volta mio zio aveva sorriso delle vene in rilievo sulle tempie e delle unghie rosicate che tentavano di sopravvivere alla mia ansia. - Mio fratello è uno tosto, dovresti saperlo-. Mi pare di sentire la sua voce adesso mentre il tassista riparte sgommando. Qualcosa nell’aria mi irrita un occhio, forse ci è finita della polvere dentro, inizio a lacrimare.

La prima a venirmi incontro è mia madre. Sembra uno spettro. - Papà è fuori pericolo, no? – le chiedo. Mi abbraccia senza dire nulla. Le parole a volte finiscono. Lo so, e non chiedo altro. Qualcuno mi riconosce e fa col capo un cenno di saluto, abbozza un sorriso. Cerco zio Antonio fra le mani che gesticolano e le spalle che incorniciano il letto. Un lento spiegarsi di corpi, il movimento fluido delle braccia che mi cedono il passo. Si allontanano. Finalmente papà mi vede. Mormora qualcosa, la voce si strozza sulle labbra gelide. Mi accosto a lui respirandone il calore. Vorrei stringerlo forte, buttarmi di peso sul suo letto, baciarlo tutto. - Le emozioni, signorina, mi raccomando. Suo padre è in una situazione molto delicata, - il primario si ferma, come per pensarci meglio, e aggiunge, -Questa cosa è fondamentale: suo padre non può subire altri shock.

Qualcosa non torna. Un tormento strano e feroce negli occhi di papà. Sento quel dolore, l’ho appena respirato. Si propaga lungo le vie nervose, riempie i gangli fino al midollo spinale. Un senso di solitudine nelle ossa. Non è come le altre volte, ci metto poco per capirlo.

Non ho visto mio fratello da quando sono arrivata. Mamma invece l’osservo fare su e giù da una stanza all’altra del reparto. E’ più magra di come me la ricordavo, chissà da quanto non mangia. E’ diventata un’ombra rapida, scura di abiti, con i capelli unti di sudore, le sue braccia nude sono scheletriche. Appare sulla soglia un frammento alla volta, prima i piedi, poi le gambe, le mani, il naso. Una luce disperata nello sguardo. Non capisco perché non stia ferma un secondo. Dov’è zio Antonio? Perché non è qui?

- È successo di notte. L’ambulanza non arrivava, al Pronto Soccorso mi ha portato tuo fratello-, la sua voce mi arriva come un brusio al margine di un brutto sogno. - Subito l’ho riconosciuta la stretta, quella tenaglia. Al quarto attacco lo sai già cos’è quel senso di oppressione acuta. Ero in bagno, mi usciva sangue dal naso. Mi ha trovato così mamma pochi minuti dopo: ero a terra.

- Non sforzarti, papà.

- E’ importante invece.

- L’unica cosa che conta è che tu stia bene adesso.

- Siamo corsi qui in piena notte, senza avvisare nessuno.

- Ti verso un po’ d’acqua?

- Mi stavano controllando il livello degli enzimi quando lui è arrivato. Io non l’ho riconosciuto.

Vorrei chiedere: lui chi, papà? Ma i suoi occhi diventano freddi e immobili. Carichi di attesa. Penso che qualcosa devo pur dire. E’ già stato molto provato, mi raccomando, non gli faccia troppe domande, lo rassicuri. Riempio il bicchiere quasi fino all’orlo. Fa un verso strano con la bocca, scuote il capo, come un diniego, io abbasso lo sguardo e frugo nelle tasche. Le meno banali fra tutte le parole banali che potrei dire, neppure quelle trovo. Mi accorgo di averle finite, le parole. Ero scesa di casa con le tasche piene. Papà, lui chi? Il suo sguardo ora trapassa il mio corpo da parte a parte. Aspetto che riprenda.

-Non potevo, capisci? Ero steso sulla barella a fare i conti con il mio dolore. Non riuscivo a respirare, non riuscivo a muovermi, mi veniva da vomitare. Ho pensato fosse l’ultima. Che al quarto non sarei sopravvissuto. Il pensiero a mamma che restava sola. Tutte quelle volte che mi sussurrava: -Chi di noi per primo? Me lo devi giurare-. -Perché tu? Perché non io? - rispondevo. -Se rimanessi, non sopravvivrei, - in testa avevo la sua voce. Capisci ora?

Poi si ferma nuovamente e non perché il respiro gli manchi. Ma prende fiato lo stesso, adesso deve dirlo, non può più evitarlo.

- Non hai bevuto, papà. Il bicchiere è ancora pieno, te ne sei dimenticato.

- Vorrei poter dimenticare altre cose.

Diceva frasi che mi sembravano senza senso ma che un senso lo avevano.

- Un sorso solo, papà. Uno e poi continui.

- Sono entrati di corsa. Gli allarmi di quei congegni diabolici suonavano tutti, tutti insieme, come tanti timer di bombe ad orologeria. Il rumore era insopportabile. Mi era entrato nei denti, nei capelli. Gli sono corsi intorno. – Un altro disgraziato come me, - questo mi sono detto. Qui dentro un delirio. - Forza, forza, più veloci! - urlavano a trenta centimetri dal mio orecchio. Li ho sentiti preparare il defibrillatore. Qualcuno gridava di fare ancora più in fretta, forse il cardiologo. Poi la scarica, uno, due… I tonfi del suo corpo sul letto. Uno, due… Non so quanto sia durato quel bip che mi ha trapanato la mente. Quel bip che sento ancora e che ho creduto essere il mio. Eravamo nella stessa stanza. Un metro e mezzo di distanza. Gli infermieri si stavano allontanando, non c’era più nulla da fare. Troppo tardi. È stato quando ho sentito le urla di Maria, di Niccolò e di Anita, le loro voci le ho riconosciute subito. Allora mi sono girato.

Le corde vocali vibrano, i polmoni sputano parole che gli esplodono sulla faccia. Nella stanza c’eravamo solo io e lui. - Non è stato un dolore secco, chirurgico, è stata una scarica di bastonate cieche. È stata una collera, una furia. Ho urlato, Dio solo sa quanto ho urlato. La forza che ho trovato per alzarmi, prima di cadere a terra senza raggiungerlo. - E’ mio fratello! E’ mio fratello!

- Che? No, no. Un momento.

- I medici l’hanno chiamato “insulto al cuore”. Ed è così che mi sento: insultato.

- Stai farneticando. Cosa diavolo dici?

- Mi operano di nuovo, a cuore battente stavolta. Ma se il mio cuore batte, io adesso non lo sento.

- Che è successo ieri notte?

- Zio Antonio.



Appoggio la schiena contro il muro e la srotolo. Srotolo le mie costole ad una ad una mentre il sudore freddo mi imperla la fronte, le lacrime si raccolgono nella bocca, la riempiono, giù fino alla trachea. Mi sento affogare. Non mi accorgo di essere per terra. Suona l’allarme dei sensori di mio padre. Stranamente l’unico pensiero di senso compiuto che ho è per nonna. – Insulto al cuore. Menomale che non ci sei più, nonna mia-.


Da quel pomeriggio di ottobre la parola “morte” mio padre non l’ha più pronunciata. La dissimula quando la sta pensando, stringe gli occhi e muove appena le labbra. Io invece ne conservo solo la emme iniziale. Serro la bocca come se la stessi per pronunciare, poi penso a zio Antonio. E dico “merlo”. Si, dico “merlo”. Sottovoce, in modo quasi impercettibile perché nessuno mi capirebbe. Mi piace pensarlo così. Rivedo i suoi occhi piccoli, le lenti spesse da miope, quegli occhiali tondi e buffi che si ostinava a portare. Ora sono fessure vispe e lucenti, occhietti vivaci di un piccolo merlo sul prato. La giacca di velluto a costine è piumaggio lucente. E il dolore allenta appena la presa.







.

Nessun commento:

Posta un commento