lunedì 10 maggio 2010

Horror Vacui

I polpastrelli sgranavano pensieri sul bagnasciuga. Le orme, se ti giravi indietro, una fila disordinata. Ricordo una brezza di salsedine, un pomeriggio d’agosto, un tramonto di porpora. In quei giorni abitavo un tempo trascorso, pensieri sciolti e fotografie sbiadite a farmi compagnia. Nemmeno una settimana e sarebbe arrivato settembre. “Agosto sta passando, anche questo mese è andato. Resisti Luca!”: pensavo. Avevo l’impressione che due stralci di cielo ed anima mi seguissero. Ovunque. L’alito delle pupille pesava. Sguardo immobile che bucava il cielo. Soltanto a guardarlo il dolore nelle sue ossa lo sentivi gridare. Schegge impazzite a torturargli l’anima.

In quel periodo tolsi tutte le foto appese alle pareti della mia stanza, ripiegai i poster e l’euforia, misi da parte anzitempo la volontà di potenza dei sedici anni e la mia notte stellata di Van Gogh. Avevo ricreato un contenitore asettico, bianco, anonimo come la sua stanza di ospedale. Dentro vi avevo rinchiuso un vulcano di rabbia. “Horror Pleni” mi chiamava mia madre con un punto di domanda in viso. Avevo paura di ogni attaccamento, temevo il distacco. Volevo arrivare all’essenza perché non capivo che senso avesse un tumore a vent’anni. Allora scarnificavo le pareti, disconoscevo i colori, mi disfacevo del superfluo. “Horror Pleni!”, mi sembra ancora di sentirla quella voce. La mia camera era una sala operatoria dove con chirurgica precisione vivisezionavo ogni emozione. L’unica cosa di cui avevo bisogno era la luce, come le piante.

Luca era molto dimagrito. Improvvise malinconie di grigio assorbivano le sue risate. Aveva un’aria stanca, rughe che non conoscevo e mani nodose spesso attorcigliate come un grido muto. Dall’ospedale si vedeva il verde del giardino ed il mondo si rifletteva sui vetri. In un mattino umido di rugiada finalmente Luca tornò a casa. Ci guardammo senza fretta e il tempo si dimenticò di noi. Io ora non so dire quanto durò il miagolio dei gatti giù in cortile, né quanto si protrassero le urla eccitate dei ragazzetti che giocavano a calcio nel campetto di fronte. Qualcuno aveva rotto la clessidra del tempo ed era fuggito via come un ladro. Più guardavo quel volto smagrito più un calendario a ritroso svolazzava impazzito: immagini di una vita “altra” da quel mattino di settembre, vertigini di una stagione passata. Il mio sguardo vagò poi nella stanza e si posò sulla sua chitarra. Corde allentate sotto un manto di polvere. Distolsi lo sguardo. “Come stai?” gli chiesi. Scoprii che Luca era diventato saggio, lui che non lo era mai stato: “Sto!.. nel senso che ci sono, sono ancora qui, e questo già mi fa star bene- si sforzò di sorridere- Voglio cambiare la mia stanza”, continuò, ” mi dai una mano?”. Sentii tutto il peso dell’aria in quel momento. Luca dirigeva i lavori dalla poltrona pieghevole dove l’adagiavano ed io eseguivo. L’ordine con cui volle disporre i suoi quadri, i suoi poster, le sue foto rispondeva perfettamente alla fisica aristotelica e leibniziana secondo cui in natura non esistono spazi vuoti. Aveva sete Luca. Di ricordi, colori, odori, canzoni, film, libri, scatole, scarpe, chitarre, tazzine di caffè, cd, penne, candele, incensi, plettri, calendari, autografi, cartoline.

Ho capito negli anni a venire che quelle provviste ataviche di oggetti erano primordiale fame di vita. Luca non aveva più il privilegio delle infinite possibilità che il vuoto offre, dunque accumulava più cose che poteva, non buttava via nulla. “Horror vacui”:decisi di chiamarlo. La moltiplicazione delle cose in quella stanza era l’iperbole di stimoli sensoriali che voleva ancora concedersi. Erano mari in cui non si era ancora bagnato, canzoni che non aveva ancora ascoltato, tramonti che temeva di dover lasciare presto. L’aria poteva diventare elastica, questo mi insegnò “Horror Vacui”.
Io cercavo di rendermi sempre più invisibile alla sua disperazione. L’ultima volta gli portai della sabbia in una bottiglietta vuota, se ne versò una noce sul palmo della mano ed iniziò a sgranarla .”Secondo te due granelli uguali ci saranno?” mi chiese. Desideravo portargli il mare, le gare di nuoto fino all’ultima boa, le notti stellate dei falò, le nostre risate. Improvvise, lunghe, sonore, soffocate, incontenibili, liberatorie: le nostre risate. Parentesi alchemiche nella nostra amicizia. Per me e Luca il domani sarebbe sempre stato un agosto stonato di spighe abbrustolite e di granite al limone. “Horror pleni” e “Horror vacui” si erano incontrati, forti e fragili canne pensanti.
La cosa più preziosa che aveva era la sua raccolta di cd : “Sai ora cosa facciamo?” mi disse, “vorrei attaccare al muro, proprio quello di fronte al letto, tutte le copertine dei miei cd così posso sempre vederli, c’è ancora spazio lì, non trovi?”. Lui le ritagliava ed io in bilico su una sedia disegnavo improbabili rette orizzontali di nastro adesivo con le discografie dei suoi miti. Ogni canzone aveva un tempo e un luogo e ci prendeva un’effervescente malinconia nell’indovinarli.
Mi accorsi che il suo tempo stava finendo quando non ci fu più spazio per nulla.

Venne la morte. Dopo la messa le lacrime scendevano con più rabbia in corpo. Fissavo un sacchetto di plastica trascinato dal vento. Pregai che la corrente non lo strattonasse troppo e che la terra gli fosse lieve. Un broncio involontario mi tormentava il labbro all’idea che proprio Horror Vacui che rinnegava il vuoto mi lasciava la sua assenza in eredità. Il freddo fumoso di ottobre diventava schiuma increspata dall’eco del mare in lontananza, inghiottiva tetti delle case. Il cielo terso. Riappesi la mia Notte Stellata sulla parete di una stanza nuova.





(estratto)


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