martedì 12 aprile 2011

L'àncora

È una stanza bianco panna, rettangolare, densa. Ha pareti gialline e azzurre per non far dimenticare la vita fuori, il sole che a sud rimbomba. La voce più forte è quella del televisore. Il volume è altissimo. Non so perché. Forse per coprire lo schiamazzo dei pensieri. O forse le lacrime di chi invece di farle parole le lascia scivolare via. Lacrime in libera uscita in questa stanza.

Ci sono tre letti qui. Il mio papà è steso sul primo vicino alla porta. È la prima volta che vedo letti fatti così. Plastica grigia dura senza spigoli, come quella dei seggioloni per neonati. Perché è così che ti riducono qui dentro. Hanno preso letti coerenti. Quelli che ho conosciuto io erano in alluminio lucido e febbrile, con sbarre severe. Letti di ospedale. O di manicomio.

Giorno dopo giorno le sbarre le ho viste farsi opache, coprirsi di grasso e paura, scottare di rabbia e speranza. Mani di tutte le età le hanno strette. Quelle sbarre sono state per me punti esclamativi in un pomeriggio d’estate qualsiasi, messi a casaccio nel bel mezzo di un discorso, fermi e imperturbabili. Sbarre senza senso, ovviamente.

Un altro infarto. Il quarto da luglio. Me l’hanno detto domenica mattina. Sabato io non mi sentivo bene. Ho finito di lavorare tardi, sono andata a casa, ho messo a bollire del latte per cena. Due cucchiaini di orzo tostato, li ho sciolti piano piano, girando delicatamente. Come volessi amalgamare i composti di una torta. Sono più di sei mesi che non faccio una torta, adesso è il tempo delle fragole, magari una crostata colorata. Poi mi sono messa a leggere, Tigro ronfava alla finestra fissando gli uccelli nel parco, guardando le ombre svelte inseguirsi sui tronchi. Nel cuore della notte, saranno state le tre, tre e mezza, mi sono svegliata. Avevo sulle palpebre le zampe di Tigro. Doveva essersi accorto dei miei incubi.

Alle otto mia madre ha chiamato. Ho preso il primo treno con Tigro che non ha miagolato mai. Mi ha tenuto gli occhi addosso per tutte le sei ore del viaggio, senza dormire mai, senza lasciarmi mai.

Ho notato un merlo nel parco di fronte casa. Sta un po’ in disparte, è solitario. Credo sia l’unico della sua specie fra quegli alberi. Osserva la folla di piccioni da lontano, li sta a guardare accalcarsi in dieci su una sola briciola. E salta via. Salterella con grazia, voli piccoli concentrici, è un guizzo nei miei occhi. Vorrei dar da mangiare solo a lui e non ai piccioni. È il primo uccello di cui non ho paura. Mi chiedo cosa stia facendo adesso mentre io sono qui. Gli ho scattato delle foto giorni fa. Devo trovare un libro sui merli, così, per saperne di più. Voglio essere preparata alla bellezza, voglio goderlo tutto quell’istante in cui il sole gli sbanda addosso. Si, è proprio bello. Chissà se ci sono piccoli merli come lui nei giardinetti di questo ospedale. Chissà come sembrerebbe questa stanza asettica con un piccolo merlo catrame lucente e una briciola di pane tutte per sè. Il nero non saprebbe più di lutto. Chissà se il dolore allenterebbe appena la presa.

Sono arrivati parenti amici conoscenti curiosi. Mi salutano. Poi ascoltano il copione che mio padre recita da due giorni con un filo di voce e la carezza degli occhi di mia madre.

- È successo di notte. L’autoambulanza non arrivava così mio figlio mi ha portato al Pronto Soccorso. L’ho riconosciuta subito la fitta, la morsa. Alla quarta volta lo sai da te cos’è quel senso di oppressione acuta. Mentre mi controllavano il livello degli enzimi è arrivato lui con l’autoambulanza. Ma io non l’ho riconosciuto.

A questo punto del discorso mio padre si ferma sempre. Attende che il coraggio ritorni e il fiato riaffiori. Chi lo ascolta pensa che forse dovrebbe dire qualcosa. Almeno per buona educazione. Qualcuno fa un verso strano con la bocca, un cenno del capo, come un diniego, tanti frugano nelle tasche cercando le meno banali fra tutte le parole banali che potrebbero dire. Altri osano subito, col piglio di chi ha la situazione in mano. Ma lui non li ascolta qualsiasi cosa essi facciano e prosegue.

- No, proprio non l’ho riconosciuto. Non potevo, capite? Ero steso sulla barella a fare i conti con il mio dolore. Non riuscivo a respirare, non riuscivo a muovermi, mi veniva da vomitare. Quel dolore.

Ora si ferma nuovamente e non è perchè il respiro gli manchi. Ma prende fiato lo stesso perché proprio adesso deve dirlo, non può più evitarlo. E nessuno parla. Facce vuote guardano l’uomo steso sul letto grigio che riprende a raccontare.

- Sono entrati di corsa in quattro, lui immobile sulla barella. Gli allarmi di quei congegni diabolici suonavano tutti, tutti insieme, come timer di una bomba ad orologeria. Mi hanno lasciato solo e sono corsi tutti intorno a lui. Passi, rumori: fretta. “Forza, forza, veloci!”, urlavano a trenta centimetri dal mio orecchio voci a cui non saprei dare un volto. Li ho sentiti preparare il defibrillatore. Qualcuno urlava di fare ancora più in fretta, forse il cardiologo. Poi la scarica, uno, due… I tonfi del suo corpo sul letto. Uno, due… Non so quanto sia durato quel bip che mi ha trapanato la mente. Quel bip che sento ancora e che ho creduto essere il mio. Eravamo nella stessa stanza. Un metro e mezzo di distanza.

Anni luce nella mia immaginazione.


(estratto)


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