giovedì 12 maggio 2011

L'attrito fra l'animo e il mondo

“Ciò che chiamano passione in realtà non è energia spirituale ma attrito tra l’animo e il mondo esterno”.

La scena è scarna, spoglia, solo la voce ansimante di un racconto fuori campo la veste. La luce di penombra disegna un rettangolo che perimetra la stanza. Si lasciano intuire le persiane abbassate per fuggire l’ultimo spiraglio di sole, le finestre serrate per blindare la vita fuori.

Il cortocircuito ha inizio quando onde di pressione sonora ci investono. Nella sala attonita l’aria si increspa e i nostri pori assorbono rumore. Quel sibilo diventa lo spettro delle frequenze, le punte e le stasi della psiche nello sforzo di sintonizzare il battito dell’anima con quello del mondo esterno. In questo bipolo con resistenza nulla, l'intensità prende le forme dell'assordante rumore di fondo di pensieri in disordine. Nelle intermittenze quasi pare di sentire la stanza recitare : “la città non esiste/(…) la città è silente/ la notte in tumulo con undici stelle”.

A metà fra la crisi morale e la crisi economica in quel semioblio che l’abitudine chiama realtà i tre protagonisti fanno i conti con l’impazienza di vivere e giocano a fare le prove generali per esorcizzare l’insostenibile pesantezza del loro dolore. Si provano le vite, come i costumi di scena. Sono figli di una generazione che ha dissipato i suoi poeti , fanno i conti con il senso vuoto di un’esistenza passata a galleggiare. Il disgusto è tale da decidere di restare nelle quattro mura di manicomio, intenti a sopravviversi.

Nasce così la trance teatrale di Lorenzo Gleijeses, con una vita che si muove sul filo di luce. Igor ha una parrucca verde acido e mima a passo di danza piccole cerimonie quotidiane. I piedi strisciano, strofinano, si srotolano fino a sentire il pavimento. Liberi i pensieri, libera la bocca di contorcersi in smorfie, libere le mani di muoversi nell’aria ovattata. Un automatismo psichico amplifica e distorce le percezioni sensoriali. L’evocazione espressiva prende il posto della narrazione che accompagna il gesto, una semiosi cosciente del linguaggio non verbale.

Fuori il rettangolo luminoso, una donna legge. Ha una parrucca rosa shocking, un caschetto alla Valentina di Guido Crepax. Legge e lancia al vento fogli di carta bianca, come foglie divinatorie di una moderna Sibilla Cumana. Il suo oracolo vaticina Pasolini, Ruccello, Moscato, Concetta Barra, versi, invettive, lamenti. Lacerti di parole. La sua voce prende Igor per mano, muove i fili invisibili della marionetta che “gioca al teatro”, la guida nella ricerca espressiva di un corpo disarticolato e sconnesso. Un urlo squarcia il turbine metamorfico: è un lampo. Ma ci lascia al buio.

Il tuono arriva dopo qualche minuto. Ha la voce di Iggy Pop, di Ian Curtis dei Joy Division. La musica è totalizzante, non ci sono vie di fuga. La manopola del volume sull’amplificatore è portata al massimo: nella stanza chiusa diventa l’unico modo per ascoltare il silenzio. La follia in puro stile post-punk è uno schiaffo al gusto del pubblico, un sistematico lavoro di distruzione dei canoni estetici del teatro di maniera. L’assurdo di Beckett, Ionesco e Genet, la crudeltà di Artaud, il teatro panico di Arrabal, Majakovskij, Mishima, Carmelo Bene tutto si confonde in un delirio sconnesso, e al tempo stesso lucidissimo, di personaggi che vestono personaggi. Un flusso di coscienza in piena regola.

Le luci sono usate volutamente in modo antilinguistico, non vogliono infatti raccontare nulla, piuttosto mostrare i nervi a fior di pelle in questo cortocircuito della mente, la mappatura delle sinapsi, quel dedalo di scintillii e ombre che è la geografia del sistema nervoso.

Il monodramma vive di un dinamismo interno dionisiaco. Del pre-testo drammaturgico di Arrabal lo spettacolo prende il nome, i caratteri di cerimonia al margine del vivere quotidiano, la catarsi irrisolta. L’eredità di Arrabal, sopravvissuto alle tre reincarnazioni della modernità, (i suoi amici Breton, Tzara e Warhol), diventa la deriva del teatro contemporaneo. La piece è depurata da ogni formalismo, libera dall’ossessione della trama. Si rincorre una scrittura scenica in cui la parola deborda nel linguaggio specifico del teatro che non coincide con il linguaggio verbale ma si fonda sulla fisicità dei corpi. E’ un teatro integrale questo: gesto, movimento, suono, parola, performance sono sullo stesso piano. Gli attori si fanno atleti della vita per rincorrerla in un dedalo di gesti e riprodurla restando fedeli al sudore della fronte, ai muscoli caldi delle gambe che sfidano la legge di gravità. E’ un teatro-danza in alcuni passaggi, un rito iniziatico con suggestioni africane. Lo spazio performativo si riempie di spirali inesauste, di corse a perdifiato, di contorcimenti hip-hop. Il corpo parla per loro in un’operazione di degerarchizzazione delle tecniche e dei canoni artistici.

La drammaturgia è un collage onirico che perde la nozione del tempo e percorre ogni latitudine dello spazio. A tener insieme il tutto è l’espediente della follia, i dettami del teatro panico che attingono ai campi più disparati delle arti, il teatro fisico che non mostra, ma dimostra.

Molto bella la scena al rallentatore di un incontro ravvicinato. I due attori diventano fotogrammi di un cinematografo d’altri tempi, sono l’impossibilità di un abbraccio, l’incomunicabilità che ci rende monadi solitarie. Ognuno un microcosmo. Una solitudine.

Mentre i tre protagonisti “si provano le vite” nella stanza di penombra il mondo fuori reclama. E' il trillo del telefono a dare l'allarme. Ha l'accento marcato di un dialetto del sud, l’arroganza camorristica del denaro, l’ignoranza della sottocultura massificata. Intima di non fare rumore perché nel condominio le prove disturbano il sonno della ragione davanti al tubo catodico. La minaccia è reale e la richiesta precisa, sottile, funzionale allo status quo. Terribilmente attuale, verrebbe da aggiungere.

Agli intellettuali, ai chi cerca la propria parte in questa vita, si chiede di non dar fastidio, di fare silenzio appunto. Do not disturb.

E in “Cerimonia (per un negro assassinato)” i bravissimi Lorenzo Glejieses, Anna Redi e Manolo Muoio fanno così rumore che le giunture scricchiolano, le ossa si spezzano nell'impeto di sbattere i piedi sul pavimento dell’ultimo simulacro postmoderno.

Proprio quello di cui ha bisogno oggi il teatro.







Federica Onorato

Autore: Lorenzo Gleijeses
Regia: Lorenzo Gleijeses
Genere: Teatro dell’assurdo
Compagnia/Produzione: Teatro Stabile della Calabria
Cast: con Lorenzo Gleijeses, Anna Redi e Manolo Muoio

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